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La lotta dell'INNSE di Lambrate

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  1. Eduardo20
     
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    Cari amici, inserisco qui di seguito un testo che racconta la storia della lotta degli operai dell'INNSE sviluppata tra la fine del 2008 e il 2009. E' una lotta importante che è diventata un riferimento per molti altri settori proletari, e non solo in Italia, ma anche in Svizzera e in Germania. La lotta è davvero impressionante se si pensa al fatto che la fabbrica contava solo 50 operai. Credo che diversi di voi conoscano già questa storia, ma per chi non la conosce è venuto il momento di farlo. Eduardo

    PER SPEZZARE LA RESISTENZA CI VUOLE LA FORZA.
    MA SE LA RESISTENZA RESISTE, SARÀ LA FORZA A SPEZZARSI
    Com’è finita? È finita bene, la fabbrica della INNSE non chiude. I primi operai tornano al lavoro il 12 ottobre 2009. Torniamo al lavoro, a lavorare per un padrone, per un industriale che vorrà realizzare un profitto e per farlo non potrà far altro che sfruttare i suoi operai. Ancora salario, tanto che basti a sopravvivere. Ancora ritmi imposti. Ancora bulloni da stringere. Ancora e ancora.
    Eppure è una grande vittoria. Grande e amara. Una vittoria che abbiamo cercato e voluto per 17 lunghi mesi. Contro tutto e tutti.
    Tutto è cominciato il 31 maggio 2008. Era sabato. La prima giornata di festa del ponte di giugno. Il venerdì sera il secondo turno aveva lavorato fino alle 22,30. Uscivamo dal capannone contenti. Ci aspettavano tre giorni di riposo. La fabbrica l’abbiamo lasciata lì in pausa come tante altre volte nei lunghi anni di attività. Ogni lunedì si riprendeva regolarmente.
    Questa volta si sarebbe ripreso il martedì col primo turno. Tanti avevano deciso di partire. La primavera finalmente si faceva sentire e l’inverno era stato duro perché in officina il riscaldamento era ridotto. Nel pomeriggio di sabato il colpo a freddo, studiato a tavolino. Arrivano i primi telegrammi: “La fabbrica cessa l’attività. Lei è posto in permesso retribuito”. È aperta la procedura di mobilità.
    Si corre verso la fabbrica. Tutti davanti alla portineria di via Rubattino. Dentro, loschi individui si muovono, chiudono cancelli interni, mettono lucchetti. Non si sa chi siano, cosa stiano realmente facendo. In poche ore la via è piena. Chi è partito ritorna immediatamente, sconvolto.
    La polizia presidia la portineria, mentre passano le ore e la domanda diventa sempre più impellente: “Cosa facciamo? Accettiamo la decisione del padrone di chiudere una fabbrica funzionante o saltiamo dentro e ce ne appropriamo rimettendola in funzione?” Sono momenti terribili, ma gli operai della INNSE decidono e entrano, perché si dicono che quello è il momento giusto. Se non entreranno ora non riusciranno a entrare mai più. Alle 2 della notte si trova una via per entrare in corteo. Gli uomini di Genta abbandonano il campo lasciando telecamere, lettini, viveri. Evidentemente si erano accampati negli uffici e pensavano di restare a lungo.
    Adesso è la volontà del padrone contro la nostra. La sua decisione di smantellare la fabbrica contro la nostra decisione di non chiuderla. Il suo formale diritto di proprietà contro un nostro diritto sostanziale: noi siamo coloro che con il lavoro hanno pagato e ripagato capannoni e macchinari. Per istinto abbiamo imparato che la volontà del padrone è solo espressione dei suoi interessi. Per questo abbiamo deciso, senza paura, di impossessarci della fabbrica e di rimetterla in moto il 3 giugno, primo giorno lavorativo dopo il ponte. Con naturalezza tutti si sono presentati al lavoro. Ognuno al suo posto, e la fabbrica è ripartita con un unico problema: l’assenza del padrone. Uno scontro che inizia così può risolversi in poco tempo?
    La fabbrica senza padrone
    Immaginate una fabbrica senza gerarchia aziendale, in una condizione sconosciuta. Si continua a lavorare semplicemente per dimostrare che la fabbrica funziona, non c’è nessuna ragione per chiuderla se non i profitti di un padrone che ha scelto di fare i suoi interessi vendendo il macchinario pezzo per pezzo dopo aver licenziato tutti i dipendenti.
    A guardarli da distante sono stati mesi affascinanti. Come garantirsi nuove commesse di fronte a Genta che minaccia chiunque ad avere rapporti con noi? Con un semplice scambio: esce un pezzo a condizione che un altro entri. Incredibile,ma funziona. E l’energia elettrica? Ci sono gli operai che a turno presidiano la centrale. E la mensa? A turno si cucina, si lavano le stoviglie. Tutti: anche gli ingegneri. I soldi per dare da mangiare a 50 persone si trovano con la solidarietà. Di giorno si lavora e di notte si presidia dall’interno. Arriva anche il giorno del licenziamento ufficiale, alla fine della procedura, il 22 agosto. Viene superato anche quello e si continua a stare in fabbrica e a lavorare pur essendo in mobilità.
    Gli operai hanno il coraggio di rifiutare qualunque accordo di ricollocazione, di pensionamento anticipato, di incentivi miserabili. La INNSE non deve chiudere con il consenso dei suoi operai.
    Genta si rivolge a eminenti avvocati ed è tutti i giorni dal magistrato e in questura. Rivuole la fabbrica anche se in effetti l’ha acquistata dall’amministrazione straordinaria per 700mila euro: il prezzo di un appartamento a Milano.
    Il magistrato decide che l’officina non sarà né degli operai né dell’industriale: alle 5 di mattina del 17 settembre la polizia sgombera gli operai del turno di notte e mette i sigilli ai cancelli: la fabbrica è sotto sequestro.
    Fuori dalla fabbrica inizia il presidio
    Che fare ora? Fuori dalla fabbrica vicino al cancello principale c’è una vecchia portineria. Ce ne impossessiamo e arriva anche una roulotte del sindacato.
    Siamo in mezzo alla strada. Via Rubattino diventerà il teatro delle nostre battaglie, dei ripetuti scontri con Genta e i suoi avvocati, delle ripetute trattative con le forze dell’ordine per poter accedere allo stabilimento. La via Rubattino verrà bloccata per 10 giorni nell’agosto 2009 e sarà un vero e proprio fronte: da una parte carabinieri e polizia in tenuta antisommossa per permettere a Genta di smontare i macchinari, dall’altra operai, studenti e gente comune per sostenere la lotta dei gruisti che usciranno solo con la vittoria in tasca.
    Ma torniamo al presidio. Inizia a metà settembre 2008. Turni rigidi come se si lavorasse. A mano a mano che passano i giorni ci si organizza sempre meglio. La cucina, i tavoli, le brandine per la notte e la stufa per l’inverno che si avvicina. Poi soprattutto Angela, ex operaia della Borletti, la nostra cuoca. Senza di lei il presidio non sarebbe stato possibile. Ha fatto da mangiare per una quarantina di persone per un anno e mezzo. Tutti i giorni, e molte volte anche alla sera compresi i sabati e le domeniche.
    Un luogo unico il presidio. Un centro mai sperimentato di socialità operaia. A tutti è permesso esprimere giudizi e teorie politiche, ma nessuno può sottrarsi alla verifica delle proprie posizioni rispetto alla centralità degli operai e alla lotta che si sta conducendo con tanto accanimento. Quante discussioni finite in malo modo e quanti passi in avanti compiuti insieme.
    Al presidio sono passati in tanti: dai pensionati della INNSE che abbiamo ritrovato al nostro fianco, ai militanti dei centri sociali, agli studenti in lotta, ai tanti operai che hanno voluto esprimerci solidarietà. Una solidarietà fatta di cose concrete: la pasta, il caffè, la legna per la stufa, le sottoscrizioni, la vendita delle magliette con il famoso logo “giù le mani dalla INNSE” e soprattutto la presenza reale e fisica nei momenti di crisi. Per tutti un resoconto della lotta, le novità, le considerazioni sul da farsi, un invito a pranzo e sempre una stretta di mano, anche quando sui grandi temi affiorano disaccordi.
    Con gli esponenti ufficiali dei partiti siamo stati più attenti. La nostra indipendenza politica era essenziale. Preferivamo incontrarli nelle loro sedi, andarli a trovare nei loro uffici. Hanno sempre accettato di buon grado. Formavamo una delegazione di operai, si andava a esporre il nostro problema e si ascoltavano i consigli che venivano dati. Spesso tornavamo al presidio scoprendo l’impotenza dei partiti che dichiaravano di stare dalla nostra parte.
    Tante volte abbiamo espresso questa convinzione, ma sembra non avessero orecchie per ascoltare gli operai o forse, più semplicemente, non sapevano cosa rispondere e che prospettiva dare al tipo di lotta ingaggiata dalla INNSE.
    Gli esponenti di partiti di governo? Quelli facevano finta di capire le nostre ragioni, ma capivano molto di più quelle del padrone e del suo diritto formale a fare quello che stava facendo. Votavano anche mozioni in favore della INNSE, ma lo facevano solo per opportunità politica. In realtà servivano a ben poco. Un esempio? A fine luglio, una settimana prima dell’intervento della polizia per permettere a Genta lo smantellamento di macchinari, in Regione venne votata una mozione quasi all’unanimità a sostegno della fabbrica con la “raccomandazione di non usare la forza contro gli operai”. Il 2 agosto via Rubattino era in stato di guerra. Il presidio occupato e Genta all’interno della fabbrica che smontava le alesatrici. Il ministro dell’Interno Maroni aveva dato il via allo sgombero armato della fabbrica e a Milano il suo partito esprimeva solidarietà agli operai. E come non ricordare che Genta era stato presentato da Castelli al prefetto?
    Gli operai non hanno mai pensato che espressioni di solidarietà, anche solo sulla carta, non servissero a nulla. In uno scontro così pesante e radicale, anche la pur minima manifestazione di comprensione poteva essere utile. Tuttavia sarebbe stato un grave errore illudersi che la chiusura della INNSE potesse essere scongiurata solo perché in una qualche dichiarazione scritta qualcuno sosteneva che la fabbrica dovesse essere salvata. Per questo abbiamo sempre fatto affidamento su noi stessi. Gli operai non sono forti perché l’opinione pubblica sta dalla loro parte. L’opinione pubblica scopre gli operai, e sta dalla loro parte, quando loro manifestano la propria forza, e i lavoratori della INNSE erano e sono una comunità operaia unita e forte.
    Il fallimento istituzionale
    Innumerevoli sono state le riunioni in sede istituzionale - prefettura, Provincia, Regione. Anche a Roma, al ministero dello Sviluppo economico. Bisogna riconoscere, senza possibilità di smentita, che nessuno di loro è riuscito a imporre al padrone la scelta di ritirare i licenziamenti, di pagare gli stipendi quando ha deciso di lasciare gli operai senza soldi per tre mesi da agosto a novembre, di favorire la vendita dell’officina a possibili acquirenti. Le decisioni di Genta non potevano essere messe in discussione. Chiudere l’azienda sembrava essere un diritto intoccabile. La volontà e l’interesse di un padrone rottamaio contavano più dell’apparato istituzionale. Per loro difendere il lavoro era solo una frase fatta.
    Alla riunione di dicembre 2008 in prefettura, davanti al rappresentante del ministero, Genta dichiara di non voler vendere l’officina, AEDES, proprietaria del terreno, di non voler vendere il capannone. ORMIS, il possibile acquirente, dichiara di essere interessato all’acquisto, ma non formula l’offerta. Gli operai dichiarano di non accettare la chiusura della fabbrica … La riunione si conclude con un nulla di fatto: il ruolo del ministero è insignificante, ascolta tutte le campane e scappa via. Il prefetto dichiara: “Non posso fare nulla”.
    Rimaniamo seduti al tavolo nella grande sala della prefettura: soli e allibiti. Ci convinciamo che solo la nostra determinazione può risolvere il problema. La nostra determinazione non ha nulla di ideologico. Si può spiegare con la storia della INNSE e con la sua consistenza materiale. Occorre una lunga stagione di lotte per costituirsi come campo avverso nei confronti dei padroni che nel corso degli anni hanno ridotto una grande fabbrica di migliaia di operai a una piccola officina. Una compagine operaia costruita in anni di lotta per difendersi dai soprusi, dalle discriminazioni. Le lotte per aumenti salariali uguali per tutti, gli scioperi per far riassumere i delegati licenziati. Genta non aveva lontanamente idea di chi aveva di fronte, lo ha imparato a sue spese.
    E poi la consistenza materiale dell’officina: un macchinario potente difficile da smontare, funzionante. Finché quel macchinario stava nel capannone e gli operai erano accampati in portineria, la fabbrica poteva essere difesa.
    La pressione dell’immobiliare
    Genta non era il nostro unico avversario. C’era anche AEDES, una potenza che voleva la demolizione del capannone per costruirci altro. Tante sono state le proteste che abbiamo inscenato negli uffici dell’immobiliare. La tecnica era semplice: un operaio in borghese bussava alla porta. La signorina apriva senza problemi e in un attimo la sala d’ingresso era piena di operai della INNSE. Si chiedeva di parlare con un dirigente e se non si svolgeva l’incontro si alzavano i toni. Quasi sempre arrivavano anche gli uomini della Digos. Quasi sempre si otteneva un incontro con qualche pezzo grosso a cui far sentire le nostre ragioni. Abbiamo vissuto dall’interno le modifiche dell’assetto societario della AEDES che nel 2008 ha perso in borsa quasi l’80% del suo capitale. Dalla boria iniziale (“Da lì ve ne dovete andare”) siamo arrivati alle possibilità aperte negli ultimi mesi: “Si può anche pensare a una permanenza di INNSE”. Ci siamo incontrati e scontrati sia con il vecchio sia con il nuovo gruppo dirigente fino al giorno dell’accordo con Camozzi. La cosa più simpatica è stato notare il modificarsi degli atteggiamenti degli impiegati e dei funzionari. Le prime volte ci accoglievano con disturbo. A mano a mano che la crisi avanzava, e anche per loro si è aperta una procedura di mobilità, venivano a chiedere consigli su come si fa la lotta. La crisi ha lavorato con metodo.
    Anche gli operai della INNSE hanno messo in atto un proprio metodo. Ci si presentava in tuta a tutti gli incontri. Non sembra, ma fa effetto. Ti caratterizza subito per quello che sei, non sei un cittadino anonimo, fai parte di una comunità a cui la società deve rispetto o disprezzo, ma con cui comunque deve rapportarsi.
    Al presidio i momenti più tragici erano annunciati dalla Digos che portava notizie di Genta che voleva entrare in fabbrica, smontare e prendersi le macchine. I nostri ripetuti dinieghi mettevano le forze dell’ordine di fronte al quesito: bastonare gli operai e farsi male o trovare una via d’uscita trattando ogni volta? Molte volte la trattativa ha avuto la meglio e Genta è tornato a casa a mani vuote. Alcune volte lo scontro è stato inevitabile e ognuno ha dovuto medicarsi le ammaccature.
    Il 10 febbraio 2009 è iniziato con i fuochi attorno allo stabilimento. Era mezzanotte, avevamo concentrato tutti gli operai, sostenitori, studenti e militanti: sapevamo che sarebbe arrivato Genta con i suoi maledetti camion. Una scena incredibile, mai uno stabilimento era stato così presidiato e circondato dagli operai. Alle quattro di mattina stranamente in via Rubattino non circolano più macchine. Si vede passare solo qualche camionetta. Ci chiediamo cosa stia succedendo. La risposta arriva subito: una telefonata dal lato opposto dello stabilimento avvisa che la polizia ha aperto a Genta la strada sul retro per far passare i camion. La gioventù presente davanti alla portineria di via Rubattino si dirige di corsa verso l’entrata posteriore nel tentativo di bloccare i camion. È ancora buio, ma l’impatto con un primo cordone di polizia si sente chiaramente: sembra un rumore di spade. Il blocco viene superato di slancio, ma ci si ferma al secondo, da dove si vedono i camion entrare in officina. Inizia una lunga trattativa. Operai e polizia gli uni di fronte agli altri. Genta non deve toccare i macchinari, vogliamo che una delegazione della Rsu possa controllare cosa sta facendo. La trattativa non si sblocca, gli operai fanno pressione, volano le manganellate. Un operaio con la testa rotta, un altro con il naso spaccato. La situazione sta degenerando. Genta accetta la delegazione e si porta via solo qualche rottame. Alle 10 di mattina è tutto finito. Le forze dell’ordine parleranno di una decina di feriti nelle loro fila. Non è vero, questo bilancio fa sembrare gli operai della INNSE più cattivi di quello che sono in realtà, ma in fondo può servire alla lotta. Alcuni mesi più tardi arriveranno anche le denunce per resistenza e lancio di oggetti, un operaio e un militante dei centri sociali dovranno comparire davanti al giudice. Non il padrone, speculatore, ma chi lotta per il posto di lavoro va perseguitato. Niente di nuovo.
    Per 17 mesi abbiamo affrontato momenti come questi. Sapevamo di avere una posizione forte, perché non abbiamo difeso un posto di lavoro astratto, ma qualcosa di concreto. Dietro ai muri la fabbrica esisteva, poteva riprendere a lavorare. Smontarla con la forza sarebbe stato, nella crisi, un crimine e nessuno era disposto a prendersi questa responsabilità, per quanto nelle sedi istituzionali, nel tribunale di Milano, vi fosse l’intenzione di chiudere la vicenda.
    Volevano chiudere la vicenda
    Noi siamo stati sempre molto concreti. Una fabbrica non si chiude, i licenziamenti possono rientrare o perché il padrone torna sui suoi passi, o perché si trova qualcun altro per sostituirlo. Così si pone la questione oggi. Domani, con la crisi che avanza, potremo mettere sul tappeto altre audaci prospettive.
    Non abbiamo mai preso in seria considerazione forme ibride come una cooperativa. Non vogliamo diventare noi stessi veicoli delle necessità del loro mercato. Il padrone è meglio averlo davanti come controparte, solo così possiamo conservare l’unità della comunità operaia che lotta per non far chiudere la fabbrica. Per questo abbiamo sostenuto la necessità di un acquirente anche se, dal prefetto al vice presidente della regione Lombardia, tutti concordavano sul fatto che “l’acquirente non esiste. Nessuno è intenzionato a rilevare la INNSE. Mettetevi l’anima in pace”.
    Per lunghi mesi abbiamo tenuto vivo il nome di ORMIS, un imprenditore bresciano che aveva mostrato interesse, ben sapendo che era solo un filo sottile a cui ci si aggrappava. Non si può capire, se non avendolo vissuto, come fu tragico il momento in cui Rai3 in un servizio intervistò Penocchio, amministratore unico di ORMIS, e questi dichiarò che non era più interessato alla fabbrica. Non ci perdemmo d’animo, continuammo a sostenere che la fabbrica non doveva chiudere, e che quella che chiamavano “una politica attiva del lavoro delle istituzioni” poteva, e doveva - se non voleva rivelarsi un bluff - trovare un nuovo acquirente. Bastava mettere l’impegno necessario. A Penati, un mese prima delle elezioni provinciali, abbiamo fatto una proposta provocatoria: “Perché la Provincia non salva la INNSE con una propria iniziativa economica? Dimostrerà a tanti operai licenziati che fa qualcosa di concreto contro la chiusura delle fabbriche e guadagnerà anche i loro voti”. Saltò sulla sedia prendendoci per pazzi.
    Negli ultimi mesi abbiamo girato da una riunione all’altra in Regione. Era come stare sull’ottovolante: se da una parte si apriva uno spiraglio, da un’altra lo si chiudeva senza appello. Il loro unico problema era diventato il sostegno al reddito per i giovani operai ai quali scadeva la mobilità. Per loro era un modo per introdurre i soliti ammortizzatori sociali in cambio dell’accettazione della fine della storia INNSE. Noi viceversa chiedevamo una deroga e una integrazione per poter proseguire il presidio e la difesa della fabbrica.
    Nel momento in cui a luglio si sono scoperte le carte, abbiamo rotto i rapporti: non avevamo resistito in presidio per un anno per andarcene a casa con 800 euro al mese e far smontare l’officina.
    Il giudice aveva deciso che i nuovi proprietari delle macchine che Genta aveva venduto avevano il diritto di smontarle e portarle via. La forza pubblica aveva pianificato come e quando chiudere la questione: il 2 agosto la città è vuota, un po’ di operai in ferie.
    L’ultimo atto
    Domenica 2 agosto siamo soli di fronte a più di 300 uomini in divisa, casco e manganello. Entra Genta e inizia in fretta a smontare le macchine.
    Anche il presidio viene occupato dalle forze dell’ordine. Via Rubattino è chiusa al traffico. La sera i muri esterni dello stabilimento illuminati dai riflettori. Mobilitata anche la guardia di finanza. Una vera e propria azione militare studiata a tavolino. Dovevano impressionarci, lanciare un messaggio senza equivoci: la storia era finita.
    Non è andata così: dopo poche ore la notizia era già in circolazione, iniziavano a confluire in via Rubattino, oltre agli operai, i primi sostenitori.
    Si tenta il blocco della tangenziale, ma siamo in pochi e ci ritiriamo. Fioccheranno multe, per questo blocco, ma con furbizia solo ai sostenitori, per dividerli dagli operai.
    Intanto i mercenari di Genta continuano a smontare, nessuno riesce a fermarli. In Regione nessuno ci riceve. In prefettura chiediamo almeno una tregua, niente da fare. Avevano deciso in concerto di scrivere la parola fine.
    La sera del lunedì siamo molto preoccupati. Davanti alla portineria continuano a confluire operai e sostenitori, ma non siamo abbastanza per tentare di entrare. Incontriamo un funzionario della polizia: “Domani saremo dentro”. La sua risposta è lapidaria: “Non vi faremo passare. Finisce che ci facciamo male.” La decisione è presa, la mattina dopo tentiamo il colpo di mano. Conosciamo lo stabilimento meglio di casa nostra: verso le 10,30 siamo sulla gru al centro dell’officina fra lo sgomento di tutti. Lo smontaggio viene sospeso per motivi di sicurezza. Genta viene allontanato; un primo risultato è raggiunto.
    Sono sulla gru quattro operai INNSE, Fabio, Luigi, Massimo e Vincenzo, e un funzionario della Fiom di Milano, Roberto. Il sindacalismo operaio ha prodotto il miracolo: la lotta durata tanti mesi, condotta con tanta determinazione, ha conquistato anche il funzionario che ha seguito le vicende fin dall’inizio.
    Otto giorni duri, incancellabili. Maledette zanzare, maledetto il caldo. Le lamiere striate non sono proprio un letto comodo. Per passare il tempo, sulla gru a venti metri di altezza, scontri “feroci” su tutto: dal tipo di alimentazione alla funzione del sindacato. Un gioco serio gridato a squarciagola nell’officina silenziosa. Chissà quante volte la polizia sotto si sarà chiesta cosa stesse succedendo.
    In alcuni momenti arrivava a noi il rumoreggiare del presidio di via Rubattino, che diventava ogni giorno più forte e che ci faceva sentire più forti. Poi la notizia che della INNSE stavano parlando tutti i telegiornali: quasi stentavamo a crederlo. E poi, tramite Radio Popolare, il collegamento con altri operai saliti su un serbatoio ci ha dato esattamente la dimensione del fatto che stavamo diventando un esempio.
    Gli incontri con i dirigenti sindacali nella penombra della gru avevano qualcosa di irreale: Sciancati commossa, Rinaldini quasi affettuoso. Forse, di fronte a operai che avevano dimostrato tanto coraggio e determinazione, si era prodotta qualche incrinatura nella formalità dei ruoli. Nessuno ha avuto da ridire se in quelle occasioni i testi concordati per le trattative venivano scritti in duplice copia e ogni proposta era pesata e concordata insieme. Ci eravamo conquistati il diritto di dire l’ultima parola sulle scelte sindacali che riguardavano la INNSE e di controllarne l’esecuzione.
    Alla fine, nel buio della gru, la notizia che tanto avevamo atteso: la trattativa con Camozzi si era conclusa. La fabbrica sarebbe ripartita, tutti saremmo ritornati al lavoro. Un finale del genere solo pochi giorni prima era inimmaginabile, eppure lo avevamo cercato, sostenuto e voluto con tutte le forze.
    Scendendo dalla gru ripensavamo a quei lunghi 15 mesi di lotta, ai momenti duri in cui sembrava tutto perso. Come sembravano lontani ora che stavamo uscendo dai cancelli con la vittoria in tasca, un po’ intimiditi nel vedere la folla che ci aspettava. Un muro di persone, abbracci, strette di mano, fotografie e fumogeni colorati: un trionfo liberatorio. Tutti eravamo provati,ma per il momento contenti: gli sconfitti erano gli altri.
    Avevano vinto gli operai della INNSE, tutti i sostenitori accampati in via Rubattino da giorni, tutti quelli che da casa tifavano per noi. E soprattutto la nostra classe, la classe degli operai che ne usciva dopo tante sconfitte con una vittoria, piccola, parziale, ma pur sempre una vittoria.
    Con gli operai di altre fabbriche, con gli studenti, con i militanti dei centri sociali, con la gente comune che ci ha sostenuto si è costituita una unità reale, di lotta. Un patrimonio comune, di valore sociale, che non disperderemo. Troveremo i mezzi e le forme per rafforzarlo.
    Dopo di noi le lotte contro i licenziamenti e la chiusura delle fabbriche non sono state più le stesse, ovunque si sono tentate e si stanno tentando nuove forme di lotta. Dalla domanda dei soliti ammortizzatori sociali si è approdati a una domanda più sostanziale: perché chiudere le fabbriche, perché sottomettersi alle scelte del padrone senza resistere, perché andarsene a casa quando le fabbriche possono essere presidiate? “Perché il mercato, il modo di produzione e di scambio fondato sul profitto, nella crisi non può far altro che chiudere fabbriche e licenziare”, rispondono. Ma se è così, non ci rimane altra scelta che lottare perché questo modo di produzione e di scambio venga superato.
    Resistete, operai. Per spezzare una resistenza, ci vuole la forza. Ma se la resistenza resiste, sarà la forza a spezzarsi. Questo è stata la INNSE.

    Fonte: L'Agenda 2010 degli operai della INNSE, "Giù le mani dalla INNSE", progetto Comunicazione
     
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  2. Eduardo20
     
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    Anche questo video è molto interessante per capire cosa è stata la lotta all'INNSE. Eduardo

     
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  3. polrpk
     
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    Grazie per questa testimonianza, i media borghesi hanno fatto di tutto per nascondere cosa c'era sotto bollando il caso INNSE come "gli arrampicatori su una gru".

    E' certo un grande peccato che uomini di tanto valore siano stati costretti a fare il ragionamento realistico di dover scegliere un altro padrone. Sembra proprio che il giorno in cui questa scelta non sarà più necessario farla tardi proprio a venire. Chissà quanto ancora dovremo aspettare.

    Un saluto fraterno,
    Daniele
     
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2 replies since 20/7/2010, 20:58   133 views
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