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3. Sulla natura della crisi

Napoli 7 e 8 maggio 2011 - weekend di incontro e di confronto

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    3. Sulla natura della crisi

    Come detto nell’introduzione, la complessità del fenomeno da analizzare e la varietà degli interventi che si sono succeduti non hanno consentito di seguire sempre un unico filo conduttore, ma si possano riassumere i punti più importanti emersi e su cui il dibattito potrebbe essere ulteriormente approfondito.
    In molti interventi è stato sottolineato che indagare a fondo sulla natura di questa crisi può aiutare a comprendere che, al di là dell’appartenenza a una “categoria”, dell’appartenenza a settori diversi della popolazione mondiale, al di là dell’essere greci, italiani, spagnoli, sudamericani, nordafricani, cinesi, la causa dei disagi economici ed esistenziali può essere riconosciuta in modo abbastanza convincente nella crisi di un sistema che oggi non è più in grado di assicurare ai lavoratori non solo benessere e “pace sociale”, ma neanche quel tanto che ha finora garantito livelli accettabili di sopravvivenza. Far emergere le contraddizioni di questo sistema ci può aiutare a capire cosa sta accadendo e perché e ci potrebbe aiutare a non sentirci inadeguati, impauriti, colpevoli, disuniti.


    3.1 La crisi di oggi e quella del ’29. Quali le differenze?
    Alla domanda posta sin dall’inizio “Se crisi significa cambiamento, in quale direzione si sta andando? Questa crisi è diversa da quella del ’29?” nei diversi interventi che si sono succeduti nei due giorni sono stati toccati diversi elementi:
    Uno degli intervenuti ha sviluppato l’idea che negli anni ’30, dopo la crisi, la speranza era possibile perché è stato possibile rispondere ad un’ennesima crisi ciclica. Negli anni ’30 però, ha continuato lo stesso partecipante, non c’erano le forze produttive tali da permettere un cambiamento radicale.

    Oggi invece, rispetto agli anni ’30, si sono sviluppate forze produttive che hanno creato elementi che stanno rivoluzionando le condizioni materiali di produzione. L’enorme sviluppo tecnologico ha provocato un radicale cambiamento nella produzione, riducendo drasticamente la forza lavoro.

    Molti dei presenti erano comunque d’accordo che la ridotta capacità di acquisto di oggi non può essere più compensata come in passato dall’espansione dei mercati. Le caratteristiche del sistema di produzione capitalistico sono cambiate. Siamo di fronte alla crisi degli Stati nazionali, cosa mai vista prima.

    Un’altra idea è stata sviluppata a proposito dello scoppio di una nuova guerra mondiale: se nel secolo scorso, è stato detto, lo scontro tra stati imperialisti per dividersi fette di mercato ha portato alla seconda guerra mondiale, oggi che il capitalismo è transazionale non dovrebbero più esserci guerre mondiali. Tra l’altro, le numerose guerre di questo secolo non si sono rivelate neanche più “utili” alla borghesia mondiale.

    Molti dei presenti erano comunque d’accordo sul fatto che la ridotta capacità di acquisto oggi non può essere più compensata come in passato dall’espansione dei mercati.

    3.2 La crisi e la precarietà: ci sono delle soluzioni?
    Da qualche decennio la precarietà è diventata intrinseca al sistema stesso e non è più solo dei giovani. Si assiste infatti ad una proletarizzazione sempre più ampia di settori della popolazione. Oggi sono in crisi anche settori della media e piccola borghesia che assistono impotenti alla perdita delle loro certezze e vedono a rischio il proprio futuro.

    Se questa, come sembrerebbe anche per la durata, è una crisi strutturale e non ciclica, se è una crisi di sovrapproduzione, si è di fronte ad una contraddizione insanabile del sistema. Le “invenzioni” della finanza internazionale/sovranazionale, i “rimedi” economici e politici che stanno cercando di adottare non stanno risolvendo la situazione, anzi sono stati talvolta causa di nuovi disastri (dalla New economy alla crisi finanziaria, da questa alla crisi dell’euro…) che hanno portato addirittura l’economia più forte del mondo a diventare ormai ostaggio della Cina.

    Gli stessi disastri ecologici sono sintomo della crisi di un sistema che non riesce più a risolvere i problemi che esso stesso ha creato.
    In un momento di crisi generale e forte come questo, sempre più la cultura è mercificata e tagliata e la stessa persona è sempre più chiaramente soltanto una merce.

    3.3 La crisi mette in discussione le espressioni della democrazia?
    Sono in crisi in tutto il mondo le strutture della democrazia rappresentativa (aumento dell’astensionismo in vari paesi, crisi della rappresentanza sindacale). Le varie forme di protesta cui si assiste in diversi paesi del mondo, sebbene partite da spinte apparentemente diverse (Tunisia ed Egitto, Spagna e Grecia), testimoniano la crescente sfiducia di settori sempre più ampi della popolazione nella possibilità di un cambiamento significativo attraverso la delega a partiti politici e sindacati.

    Queste lotte vedono in prima fila i giovani, ma insieme ai loro genitori. Questa crisi, sempre più sentita sulla propria pelle, non è solo economica, ma anche di valori. L’isolamento sul posto di lavoro, dove si è sempre più spinti alla competizione, la marginalizzazione e il senso di estraniamento rispetto al proprio ruolo, se da un lato creano paura e sfiducia, possono però far nascere un bisogno di unità e di protagonismo.

    3.4 Conclusione
    Come già detto, questi sono soltanto alcuni degli elementi usciti dalla discussione, sicuramente quelli più dibattuti. Invitiamo tutti a proseguire sviluppando i quesiti inseriti nei tre precedenti paragrafi:

    • La crisi di oggi e quella del ’29. Quali le differenze?
    • La crisi e la precarietà: ci sono delle soluzioni?
    • La crisi mette in discussione le espressioni della democrazia?
     
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  2. polrpk
     
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    3.1) Crisi del 1929
    L'analisi delle crisi è una questione che si articola su due livelli differenti di profondità.
    L'analisi di profondità è la seguente. Secondo una letteratura marxista che ritengo la più qualificata e convincente, esistono leggi del capitalismo che lo conducono inevitabilmente al collasso economico. Il capitalismo ha bisogno dell'accumulazione di capitale come dell'aria ma, a causa della legge della caduta del saggio del profitto (e la conseguente caduta della massa del profitto), l'accumulazione si scontra con il profitto destinato al consumo del capitalista. Siccome il modo di produzione capitalistico è fondato sull'autonomia dei singoli produttori privati che perseguono esclusivamente il loro interesse, è ovvio che a soccombere tra produzione per la società (accumulazione) e guadagno individuale (reddito del capitalista) non potrà che essere l'accumulazione. Così la produzione si contrae, ma il problema si ripresenta ancora e così via fino alla situazione limite in cui i profitti sono nulli: la motivazione all'investimento cessa e con essa cessa il ruolo produttivo del denaro da investimento. E' la fine del capitale, il crollo del capitalismo. Tuttavia già Marx metteva in guardia su alcune controtendenze che rallentavano il crollo (es. riduzione dei salari, ecc.).

    L'analisi contingente è quella che considera la forma con cui questa manifestazione della tendenza al crollo emerge. Io non sono abbastanza competente per poter parlare in maniera compiuta ne del '29 ne di oggi; ma da quello che so, abbiamo a che fare con forme di crisi differenti.
    Il '29 rappresenta la crisi del fordismo made in USA e la prima grande manifestazione del fatto che il capitale è un ostacolo alle forze produttive. Il fordismo è stata una grande innovazione tecnologica dell'industria che ha permesso l'emergere del prodotto industriale di massa: la ricchezza materiale degli americani è cresciuta notevolmente nei "ruggenti anni venti". Ma il sogno di Ford e del suo "capitalismo del benessere" di un mercato illimitato si è presto scontrato con gli angusti limiti del mercato americano e la difficoltà di fare gli stessi profitti. Così, inesorabile, è arrivata la contrazione della produzione e l'aumento della disoccupazione. Ritengo che gli effetti su Wall Street siano solo conseguenza, e non causa, della crisi, a maggior ragione considerando che la dimensione della finanza di allora era di molto ridotta rispetto a quella attuale.
    Se non fosse stato per la guerra gli USA non si sarebbero risollevati. Negli anni 50 si sono trovati un Europa e un Giappone da ricostruire, di modernizzare: il boom economico, senza precedenti. Il mondo chiedeva agli USA il know-how per avviare la produzione fordista e questa domanda, oltre che arricchire i professionisti americani, accresceva la domanda di figure qualificate. Contemporaneamente nei paesi arretrati si conosceva una certa prosperità data dall'instaurazione della grande industria fordista. Negli USA, inoltre, potevano riprendere le esportazioni di manufatti (soprattutto macchinari industriali) verso i paesi da ricostruire. Tutto questo è durato fino agli anni '70, quando il fordismo era ormai affermato compiutamente anche in Europa e Giappone. La concorrenza è di nuovo spietata e, di nuovo, crollo dei profitti e crisi. Gli USA, però, si salvano ancora con una botta di culo: l'informatica. La nascita dell'informatica, oltre a creare di per se un nuovo settore industriale, permette un enorme incremento della produttività dei servizi, che penetrano ovunque. Grazie all'informatica diviene redditizio investire capitale nei servizi: così gli USA possono lasciare agli europei la produzione fordista e loro dedicarsi alla solita vendita del know-how (sui servizi) e giovare delle nuove imprese tecnologiche.
    Questo funziona fino al 2000 circa. Da allora, di nuovo, crollo per le medesime ragioni.

    Dopo 10 anni, non si ancora trovato nessun espediente che permetta di uscire da questo pantano. Con l'entrata in scena dei paesi asiatici che offrono schiavi a bassissimo costo c'è stata una forte controtendenza al crollo, ma ad oggi vediamo che nemmeno questo è bastato e la stessa Cina, questa enorme tigre di carta, comincia a tremare. Oggi, a differenza del '29, non è proponibile nessun New Deal: allora gli Stati erano un immensa garanzia e questo ha permesso una certa ripresa negli anni '30 e, soprattutto, durante la guerra e nel dopoguerra. USA e URSS si sono spartiti il mondo non solo e non tanto militarmente, ma a colpi di crediti per la ristrutturazione. Oggi non esiste nel mondo nessuna potenza in grado di fare altrettanto: pertanto si assiste alla crisi profonda del sistema di un fattore importante di controtendenza al crollo, il debito. D'ora in avanti non sarà più possibile ancora credere alla favola del debito. E' un fatto.

    Quindi io ritengo che questa crisi segna questo: la crisi di un fattore rilevantissimo che impedisce al capitalismo di crollare. Se il '29 ha mostrato la fine dell'ideologia liberista e ha escoriato la pelle per farci vedere più in profondità, la crisi attuale ci mostra direttamente le interiora del moribondo, come uno squarcio nella pancia. I punti del New Deal non sono bastati, e ora l'apertura è arrivata fino alle budella. La crisi attuale ci mostra come non mai la legge del crollo del capitalismo privata di uno dei suoi veli: il debito.

    Compito dei comunisti è contribuire a togliere anche gli altri veli che gettano fumo negli occhi e impediscono di scorgere realmente l'analisi di profondità.
     
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  3. Eduardo20
     
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    Mi è piaciuto l'intervento di Polrpk che fa un bello schizzo complessivo della situazione, anche se mi pare di capire che lui considera come causa della crisi la sola caduta tendenziale del saggio di profitto e non anche la saturazione dei mercati extracapitalisti. In ogni caso buon intervento, su cui bisogna riflettere e sviluppare. Eduardo
     
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  4. polrpk
     
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    CITAZIONE (Eduardo20 @ 27/9/2011, 00:36) 
    mi pare di capire che lui considera come causa della crisi la sola caduta tendenziale del saggio di profitto e non anche la saturazione dei mercati extracapitalisti.

    Esattamente, hai capito bene. Se parliamo di cause profonde, la legge della caduta tendenziale del saggio del profitto è il grande spauracchio del capitalismo, il motivo della sua fine certa. Essa è l'emergere della contraddizione fondamentale di questo modo di produzione: produzione sociale, appropriazione privata. E' il profitto privato a spingere alla produzione, ma scontrandosi con i caratteri sociali della produzione, alla fine soccombe.

    La saturazione dei mercati non è un qualcosa di immanente al capitalismo: il sistema ha mostrato più di una volta di sapersi modificare in risposta alla saturazione dei mercati. Questa caratteristica è ripresa da quanto ho detto sopra sull'emergere di nuovi mercati (es. l'informatica e i servizi).

    Daniele

    La crisi e la precarietà: ci sono delle soluzioni?
    Restando nel capitalismo, solo due:
    1) l'emergere di nuovi mercati tali da rivoluzionare il mondo tecnico della produzione (come il fordismo e l'informatica);
    2) la distruzione di una massiccia dose di capitale, naturalmente attraverso una grande guerra. E' ovvio che se una nazione devasta una gran quantità di capitale di un altra, i capitalisti dello stato vittorioso si impadroniscono di un'intera nazione.

    Ma se queste due ipotesi non si verificano in modo profondo e generalizzato, il capitalismo non ha alcun modo di garantire una vita libera dalla precarietà, che altro non è che un modo di aumentare lo sfruttamento dei lavoratori.
     
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  5. Eduardo20
     
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    Dietro suggerimento di Catinap sposto qui due miei interventi fatti nella rubrica attualità. Il primo è un video fatto piuttosto bene che propongo a tutti di seguire, Eduardo:

     
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  6. Eduardo20
     
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    Il secondo intervento è relativo ad altri video che ho trovato... Girando su internet alla ricerca di video sulla crisi ne ho trovati diversi altri che, contrariamente a quello che ho postato, sono delle vere trappole perchè sono del tutto mistificanti. Credo sia importante svelare l'inganno che si nasconde in certi discorsi e specificamente in questi video, spesso presentati da personaggi "alternativi" e di "sinistra", ma che alla fine presentano la crisi economica attuale - che il singolo autore ne sia consapevole o no - come transitoria e causata dall'irresponsabilità di banche o finanzieri egoisti piuttosto che come l'espressione definitiva e senza possibilità di recupero del sistema capitalista. Cercherò in futuro di tornare su questo punto. Eduardo
     
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  7. osvaldo4s
     
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    Intervengo per dire che cosa penso sulla natura della crisi del capitalismo o perlomeno quello che sono riuscito a capire da fonti tipo: “L’Accumulazione del Capitale e “La risposta agli epigoni” di Rosa Luxemburg). Oltre a discussioni e letture su tale argomento. Vorrei premettere che un tale intervento è dettato dalla necessità mia e credo di molti compagni di avere, attraverso altri interventi, la possibilità di chiarire meglio la natura della crisi per le implicazioni sociali e quindi politiche che essa comporta.
    Tu dici, Daniele, che
    CITAZIONE
    La saturazione dei mercati non è un qualcosa di immanente al capitalismo: il sistema ha mostrato più di una volta di sapersi modificare in risposta alla saturazione dei mercati. Questa caratteristica è ripresa da quanto ho detto sopra sull'emergere di nuovi mercati (es. l'informatica e i servizi).

    Io penso invece che la saturazione dei mercati capitalisti è immanente al capitalismo e rappresenta proprio la sua tara genetica. Il fordismo ha solo migliorato la produzione per un tempo relativamente breve e pertanto non è stato in grado di dare una risposta definitiva alla crisi, e la stessa cosa si può dire dell’informatica. È vero, il modo di produzione capitalista può anche modificarsi ma nonostante ciò è andato ineluttabilmente verso l’aggravamento della sua fase di decadenza. Iniziata questa verso la fine del primo decennio del 1900, con la saturazione dei mercati non capitalisti che intanto anch’essi diventavano capitalisti.
    Ma proviamo a ragionare su tale argomento:
    Se un capitalista (A) investe del capitale e manda avanti un ciclo produttivo, di certo alla fine della produzione si trova una certa quantità di merce che deve obbligatoriamente vendere tutta se vuole valorizzare il capitale attraverso il plusvalore estorto ai salariati e contenuto proprio in quest’ultima. Ora supponiamo pure che i lavoratori salariati che hanno contribuito a produrre quella merce riescano a spendere tutti i loro salari (loro massa salariale) per comprare la merce da loro stessi prodotta. In tal caso, ci rendiamo subito conto che questa massa salariale (definiamola (uno) per comodità di ragionamento) non può assolutamente valorizzare il capitale iniziale (essa infatti è inferiore al capitale inizialmente investito dal capitalista (A)). Né tanto meno il capitalista (A) può valorizzare il suo capitale iniziale comprando (lui) quella parte di merce che il salariato (uno) non è riuscito a comprare.
    Chi potrà valorizzare dunque questa parte di capitale contenuto nella merce che non si riesce a vendere, almeno in quel settore di capitalismo? Ebbene, direte: ci sono altri salariati ed altri capitalisti (definiamoli (B))che, disponendo i primi di una massa salariale (definiamola (due))ed i secondi di capitali entrambi appartenendo ad una sfera capitalista al di fuori di quella inizialmente considerata, ma pur sempre capitalista, possono rappresentare un mercato solvibile per quella quantità di merce che abbiamo considerato non vendibile prodotta dal capitalista (A). Per cui i salari dei primi (uno) + quello dei secondi (due)+ i soldi dei capitalisti (B) appartenenti questi ultimi due, come su detto, ad un'altra sfera produttiva, possono acquistare tutte le merci prodotte dai primi ed attraverso il necessario plusvalore in esse contenuto valorizzare il capitale.
    Ma il salariato di una zona di capitalismo, proprio perché è salariato deve acquistare tutto quello che gli serve per sopravvivere da salariato e pertanto può acquistare sola una minima parte della merce che c’è in circolazione. Pertanto, è impossibile che, i salariati, anche appartenenti a campi produttivi diversi, possano essere acquirenti solvibili di tutte le merci in circolazione. Infatti, quest’ultimi (due) come salariati di (B), non potranno valorizzare come è capitato per (uno) il capitale investito in qualche ciclo produttivo mandato avanti dallo stesso (B). Né tanto meno (B) è in grado di valorizzare il suo capitale acquistando quella merce che non si riesce a vendere per i motivi su citati. Oltretutto, ed intanto, tutti i capitalisti devono far fronte alla caduta tendenziale del saggio del profitto indotta dalla necessità di sconfiggere il concorrente, sempre più aggressivo, aumentando la produzione e riducendo il costo del lavoro attraverso investimenti massicci nel capitale fisso (tecnologia ecc.). Tutto ciò rende ancora più irrealizzabile attraverso l’intera massa salariale la rivalorizzazione del proprio capitale, sia essa di A o di B o di tutto l’alfabeto. Allora, o quella parte di merce non venduta può dare profitti attraverso mercati non salariali e cioè non capitalisti oppure, se questi non esistono più in maniera sufficiente per valorizzare il capitale globale, è crisi da sovrapproduzione generalizzata, che oltretutto spinge verso un ulteriore ribasso la caduta tendenziale del saggio del profitto. Ed anche aumentando il tasso di sfruttamento di qualche settore del salariato (aumento delle ore di lavoro non pagate), comunque, non si riesce a valorizzare il capitale se non occasionalmente ed in maniera non significativa per ridare un senso progressivo all’insieme del sistema. Per farla breve se consideriamo il capitale mondiale una sola unità ed il salario mondiale una sola unità quest’ultimo in un tale tipo di mercato, come è quello attuale, non può assolutamente valorizzare il capitale UNO perché come un tutto non è in grado di acquistare tutta la merce prodotta. Pertanto penso che il capitalismo non abbia soluzioni per uscire dalla sua crisi e quello che invece tocca ai proletari del mondo intero è proprio ciò che tu prospetti nella seconda ipotesi del tuo intervento
    CITAZIONE
    il capitalismo non ha alcun modo di garantire una vita libera dalla precarietà, che altro non è che un modo di aumentare lo sfruttamento dei lavoratori

    anzi riprendendo una tua frase che condivido molto, citata nella sezione di questo forum sulla solidarietà (in particolare al popolo siriano), è proprio vero che
    CITAZIONE
    … mai come oggi risulta attuale il bivio "comunismo o distruzione dell'umanità", ma mai come oggi questo bivio fa paura

    Osvaldo

    Edited by osvaldo4s - 10/10/2011, 06:15
     
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  8. polrpk
     
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    CITAZIONE (osvaldo4s @ 9/10/2011, 19:44) 
    Il fordismo ha solo migliorato la produzione per un tempo relativamente breve e pertanto non è stato in grado di dare una risposta definitiva alla crisi, e la stessa cosa si può dire dell’informatica.

    Sono d'accordo, infatti non ho detto che l'invenzione di nuovi mercati sia in grado di eliminare le contraddizioni interne del capitalismo, ne tantomeno di eliminare la sua tendenza al crollo. Tuttavia sia l'analisi sia la storia ci dicono che i nuovi mercati sono uno dei fattori di controtendenza del crollo, lo ritardano, lo rimandano. E questo perché? Non perché forniscono sbocchi alle merci prodotte, ma perché forniscono sbocchi profittevoli a capitali in crisi!

    CITAZIONE
    È vero, il modo di produzione capitalista può anche modificarsi ma nonostante ciò è andato ineluttabilmente verso l’aggravamento della sua fase di decadenza. Iniziata questa verso la fine del primo decennio del 1900, con la saturazione dei mercati non capitalisti che intanto anch’essi diventavano capitalisti.

    Sicuramente la fine dell'età d'oro del colonialismo moderno ha segnato un punto di svolta importante nella politica degli Stati, ma io nutro profondi dubbi sul fatto che abbia inciso più di tanto sulla questione della crisi del capitalismo. Tendenze al crollo si sono verificate anche prima e sono state superate sia allora che nel XX secolo.
    Che un luogo selvaggio si trasformi in mercato capitalista non è necessariamente un male per il colonizzatore borghese, dipende da quali sono i suoi interessi; se è alla ricerca di oro o carbone è meglio avere schiavi, ma se è alla ricerca di sbocchi per i suoi prodotti tecnologici (vedi USA nel dopoguerra), il capitalismo nel paese dominato è necessario.
    Del resto la crisi da sovrapproduzione non è tipica dell'ultimo secolo e, sempre nell'ultimo secolo, la borghesia ha comunque vissuto momenti di forte prosperità.

    Io ritengo che i problemi profondi del capitalismo riguardino il capitale stesso, non il mercato, la circolazione.

    CITAZIONE
    Chi potrà valorizzare dunque questa parte di capitale contenuto nella merce che non si riesce a vendere, almeno in quel settore di capitalismo?

    Un momento: tralasciamo un attimo il capitalismo e abbassiamoci al livello di economia mercantile semplice. Lì, tralasciando i lavori qualificati, si ha che ad eguale tempo di lavoro produce un eguale guadagno in termini di valore, di denaro; se così non fosse si avrebbe uno spostamento di forze produttive dal settore meno remunerativo a quello più remunerativo, fintanto che una giornata di lavoro renda la stessa somma di denaro. Quando un produttore produce troppo (per il mercato, naturalmente) di una merce, si ha l'effetto di un crollo del suo prezzo che, se molto sostenuto, induce il produttore a investire altrove il proprio tempo lavorativo.
    Se il produttore vendeva al di sopra del valore, il nuovo prezzo si attesta al valore e lui può valorizzare il capitale: è la legge del valore che livella al tempo di lavoro socialmente necessario. Se invece si tratta di un crollo di quel prodotto, allora DEV'ESSERCI un altro settore che sta facendo extraprofitti. Se così non fosse, significa che c'è una parte di persone che tesaurizza del denaro: non compra beni di consumo né mezzi di produzione. Ma sarebbe comunque un fenomeno arbitrario che non ha niente a che fare con il capitalismo nella sua essenza.

    Al capitalista, infatti, non interessa tanto il vantaggio assoluto, ma il vantaggio relativo: interessa guadagnare più degli altri. UN abbassamento generale della produzione può rendere solo più dure le condizioni di guadagno e investimento perché maggiore è la concorrenza e l'offerta rispetto alla domanda, ma assolutamente non scalfisce la valorizzazione del capitale.

    Se il capitalista non riesce a vendere vuol dire che sta producendo merce in eccesso e DEVE trovare altri sbocchi NON della sua merce, ma del suo capitale! Dal punto di vista dell'analisi economica noi ammettiamo che i soggetti economici siano razionali, calcolatori e che operino al massimo dell'efficienza: cioè che ogni capitalista sappia arrivare esattamente dove può arrivare.

    Il vero punto è: cosa succede se non li trova quegli altri sbocchi per il suo capitale? Perché è impossibile, ad un certo punto, trovare investimenti adeguatamente profittevoli? Cosa ha generato il crollo dei profitti?


    CITAZIONE
    Pertanto, è impossibile che, i salariati, anche appartenenti a campi produttivi diversi, possano essere acquirenti solvibili di tutte le merci in circolazione.

    Questo è indubbiamente vero e, infatti, cadono come pere tutte quelle argomentazioni che immaginano l'unica possibilità di sbocco la massa dei redditi da salario.
    Primo per quello che hai detto tu: il salario sarà sempre più basso del valore del capitale+plusvalore. Secondo, perché non è affatto necessario che i salariati comprino tutto: può benissimo esistere una gran massa di indigenti a fronte di un gruppetto di ricchissimi capitalisti che si spartiscono il malloppone tra di loro. La fanno loro la domanda: per il mercato un milione di uomini con un euro ciascuno è uguale a un solo uomo con un milione di euro.

    CITAZIONE
    Allora, o quella parte di merce non venduta può dare profitti attraverso mercati non salariali e cioè non capitalisti oppure, se questi non esistono più in maniera sufficiente per valorizzare il capitale globale, è crisi da sovrapproduzione generalizzata,

    Io non capisco perché l'unico sbocco sarebbero i mercati non capitalistici. Il capitalista produce e investe fintanto che riceve un profitto non inferiore rispetto a quello medio, alto o basso che sia. Se c'è sovrapproduzione, il capitalista frena la produzione proprio per eliminare la sovrapproduzione. Il capitale disinvestito che gli rimane o trova modo di investirlo altrove, oppure CESSA di essere capitale e l'economia arretra: aumenta la disoccupazione e si ha la crisi. Ammetto di non essere un esperto della teoria della sovrapproduzione, ma proprio non riesco a capire per quale motivo debba esserci sovrapproduzione generale (sempre escludendo il credito, la finanza, ecc.). Quello che non si può comprare l'operaio se lo compra il capitalista con i soldi che gli ha fregato!

    CITAZIONE
    Per farla breve se consideriamo il capitale mondiale una sola unità ed il salario mondiale una sola unità quest’ultimo in un tale tipo di mercato, come è quello attuale, non può assolutamente valorizzare il capitale UNO perché come un tutto non è in grado di acquistare tutta la merce prodotta.

    E perché mai? Se si producono 100 mele non importa che gli operai ne possano comprare solo 1 perché ipersfruttati: i capitalisti possono comprare le altre 99 e spartirsele tra loro. Infatti Valore della merce = C + V + PV. C è costante e lo trascuriamo in quanto, per definizione, è sempre speso. Anche se V fosse piccolissimo, c'è sempre PV. E anche qualora i capitalisti fossero astinenti al consumo (cioè K=0, con K consumo del capitalista, A fondo di accumulazione e quindi PV=K+A) e spendessero tutto in accumulazione, in tal caso A fornirebbe domanda per altre merci (mezzi di produzione). Ma non vedo alcuna traccia di sovrapproduzione generale insita nel capitalismo, a meno che non ci metta lo zampino il credito, ma è un altro discorso.

    Daniele
     
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  9. Eduardo20
     
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    Mi è piaciuto questo video prodotto il giorno della manifestazione del 15 ottobre a Roma e ve lo propongo. Vome potrete vedere non è particolarmente profondo ma molto fresco e genuino. A presto, Eduardo

    http://

     
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  10. pendola
     
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    In questa discussione per ma ha regione polrpk e perciò voglio spezzare qualche lancia a favore della caduta tendenziale del saggio di profitto come motivo profondo della crisi che si manifesta fenomenicamente con la carenza dei mercati.
    La Luxsemburg dice che l'esaurimento di terriori vergini da conquistare e da usare anche come mercati è la causa vera del crollo del capitalismo, e colloca questo stadio almeno intorno alla prima guerra mondiale. La luxemburg è morta senza poter vedere il fordismo che si sviluppa allora negli USA e si intravede nei paesi europei più sviluppati giè negli anni 20, in italia negli anni 50. Quando col fordismo c'è la catena di montaggio, ed il capitolare dice agli operai quali movimenti fare o non fare, la produttività aumenta enormemente. Durante lo stesso perieodo storico la meccanizzazione dell'agricoltura e l'applicazione della chimica ha espulso milioni di persone dall'agricoltura e i costi della sopravvivenza alimentare si sono enormemente abbassati per tutti. Uno sfruttamento maggiore veniva agli operai per l'estrazione di plusvalore relativo ma quando questi lavoratori facevano la spesa alimentare pure risparmiavano molto. Al netto della soprvvivenza alimentare che si abbassava i lavoratori potevano consumare i maggiori prodotti dell'industria. L'impoverimento di milioni di contadini, la loro emigrazione o il loro passaggio in altri settori fa capire coma solo questi ci rimettessero e non i capitalisti agricoli o l'insieme del settore industriale. Ma operai agricoli o industriali subivano poi il medesimo sfruttamento, i primi finivano per essere l'esercito di riserva rispetto ai secondi. Il fordism tocca fino ad anni recenti anche i paesi più sottosviluppati perciò storicamente si può vedere come una cosa grande, cioè come una continuazione dell'accumulazione originaria
    Questo è solo un aspetto di quelli che contraddicono la luxemburg per la quale con la prima guerra mondiale l'umanità ha subito di fronte a sè o il socialismo o la barbarie. A dispetto delle teorie della luxemburg fino a metà anni 70 il capitalismo riesce a svilupparsi senza lo zampino del credito come ciustamente dice pulrpk, il debito si sviluppa a partire dagli 70. La luxemburg non poteva vedere questi sviluppi ma noialtri sì. Ad oggi si parla molto di nuovi settori, ecologia etc. Il fatto è che I settori nuovi in generale si mangiano quelli vecchi, i computers si mangiano telegrafi, telescriventi, produzioni cartacee etc. Ai capitalisti dei nuovi settori non gli frega niente di distruggere i settori vecchi, loro vigliono solo arrivare ai profitti dei loro predecessori che muoiono. E perchè mai il capitalismo non potrebbe andare avanti così all'infinito? non certo per la saturazione dei mercati che sorgono sempre dal progressivo rinsecchimento dei settori vecchi, ma perchè i nuovi settori hanno una maggiore composizione organica del capitale, cioè abbassano la sussistenza e si ritrovano troppo capitale investito in impianti rispetto al mercato standard, ma allora è la composizione organica del capitale l'agente che scompiglia il gioco e uccide senza scampo il capitalismo. Della sovrapproduzione di merci non vi è traccia, mica i capitalisti sono così scemi da produrre merci su merci senza aver prima verificato che il mercato possa assorbirle!! e il marketing?? Aggiornatevi!!!
     
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    Una domanda semplice: come mai i magazzini delle aziende sono pieni di merci invendute? Perché i supermercati e ora anche i piccoli commercianti al dettaglio ci propongono sempre più il 3x2 e altre super offerte? E' solo questione di marketing?
    Ho sentito da alcuni amici, che lavorano in settori produttivi, addetti al marketing, che il problema non è più semplicemente l'occupazione di nuovi spazi di mercato, ma è proprio la mancanza di nuovi mercati che spingono da tempo i capitalisti a farsi una concorrenza senza limiti e quindi una guerra senza scampo.

    Un invito a Pendola: per favore, non terminare il tuo intervento con " Aggiornatevi!!!". E' come se mi stessi dicendo che non ho capito niente di niente, mi fai sentire quasi colpevole.... ma di cosa?
    Io ho voglia semplicemente di cercare di riflettere su quanto sento e leggo da più parti. Poi mi costruirò un mio pensiero autonomo.
     
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  12. polrpk
     
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    A catinap: se i magazzini sono pieni e (soprattutto i piccoli commercianti che vendono prodotti di massa) svendono le merci non è certo perché si producono troppe merci. La sovrapproduzione e la sottoproduzione sono fenomeni costanti in un economia anarchica come quella di mercato, ma questo non significa che è patologica; il valore delle merci ha esattamente la funzione di meccanismo di regolazione della produzione. Se vengono prodotte troppe merci rispetto a quelle che il popolo può permettersi, i prezzi crollano e i capitalisti investono i loro capitali altrove (magari nella produzione di barche o case da gioco).
    E' ovvio che se i mercati fossero infiniti i capitalisti farebbero profitti infiniti; la domanda di merci sarebbe, infatti, illimitata! Ma non è per questo che il capitalismo è destinato a crollare (infatti sarebbe ipotizzabile uno stato stazionario perenne).

    Il punto è che l'unico fattore che "crea" valore, il lavoro vivo, è sempre più esiguo numericamente all'interno di ogni attività produttiva. I marxisti ripetono questa cosa del "lavoro vivo che crea valore" come un mantra, spesso senza aver compreso cosa significa, perché crea valore. La risposta è semplice, ma è meglio ripeterla: supposto l'equilibrio ipotetico tra le diverse sfere di produzione, al ricavato dalla vendita della merce vanno tolto i costi del capitalie costante, rimanendo il valore aggiunto dal lavoro. Se il legno, chiodi e martello mi costano 10 euro, e rivendo il tavolo per 20 euro, è evidente che 10 euro sono un valore aggiunto dal mio lavoro di falegname; senza il lavoro vivo, legno, chiodi e martello non avrebbero acquistato alcun valore aggiuntivo. Se il costo del capitale costante va sempre detratto dal ricavo totale, il reddito da lavoro è l'unica fonte di un profitto per un parassita-capitalista: mi approprio di tutto il reddito da lavoro, escluso il minimo che serve al produttore per vivere. Ecco il plusvalore, semplicemente, senza alcun misticismo. E' come pagare un pizzo ad un mafioso, la classe operaia si trova in questa situazione.
    Ora, se il lavoro vivo rappresenta il 90% del valore del prodotto, io capitalista ho molto margine di furto; ma se la composizione organica è molto alta, io già in partenza mi trovo costretto a detrarre la maggiorparte del ricavo dalla vendita per ripagare il capitale costante, ho ben poco da rubare a quei pochi operai rimasti.

    Quello che vediamo con i nostri occhi confermano ampiamente questa legge: l'unca cosa che la borghesia può fare è tentare di aumentare il saggio del plusvalore, il saggio di sfruttamento, per far si che a parità di capitale costante aumenti almeno la parte di reddito da lavoro che il capitalista può estorcere. Da qui gli attacchi continui a salari, welfare, ecc.
    Il nervosismo dei mercati è più d'ogni altra cosa esplicito: è evidente anche ai muri che il problema è la mancanza di fiducia in un economia che non cresce. E qual'è L'UNICO fattore che impedisce all'economia capitalista di crescere? La mancanza di profitti.

    La frittata la girano e la rigirano, ma il problema non si sposta di un millimetro da come l'ha posto Marx più di un secolo fa.
     
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  13. osvaldo4s
     
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    Non me ne vogliate per la lunghezza dei seguenti brani. Giuro che non li ho scritti io (magari!). Se letti con attenzione, secondo me, dovrebbero far nascere almeno qualche perplessità presso coloro i quali pensano che le crisi dei mercati o comunque del capitalismo siano riconducibili alla sola caduta tendenziale del saggio del profitto. In breve si afferma che la crisi da sovrapproduzione di merci spiega i limiti all’espansione storica del capitalismo, mentre implicitamente la caduta tendenziale del saggio del profitto da sola non basterebbe. Malattia genetica del capitalismo, la sovrapproduzione in un’epoca come la nostra si è generalizzata ad un punto tale da non lasciare altro spazio alla borghesia che a continuare a barare con la legge del valore per crearsi dei mercati artificiali nel tentativo di dare una possibile soluzione all’ingombro mercantile. Oggi però questo spazio si è ristretto ad un punto tale da rendere inutile qualsiasi sforzo si faccia in tale direzione. I mercati, infatti, sono in perenne asfissia ed è la stessa borghesia ad ammettere che si tratta di una crisi del debito, anche se la incolpa, dicendo solo una parte della verità, ai finanzieri corrotti e senza scrupoli invece che alle contraddizioni insolubili del suo sistema. Per noi lavoratori e sfruttati invece l’importanza della crisi del capitalismo riveste un senso molto pratico perché sappiamo bene che questa crisi, come sempre, la borghesia la sta riversando tutta sulla nostra pelle ed ha intenzione, come preannunciato dai piani di risanamento degli Stati, di continuare a farcela pagare. Pertanto se questa crisi ha ancora dei caratteri di reversibilità varrebbe la pena di lottare per il miglioramento delle nostre condizioni di vita, e di conseguenza si dovrebbero accettare anche ipotesi riformiste e tutto ciò che queste politicamente comportano, ma se, al contrario, essa non è reversibile, e cioè si aggrava sempre di più, non ci si può che battere per il capovolgimento del sistema, prima che ci travolga tutti in una voragine dalla quale non sarà più possibile uscire. In fin dei conti quando si discute di crisi non è di questo che si sta parlando?
    Ma veniamo ai brani su citati:
    "Qui noi non abbiamo ancora da considerare il rapporto di un capitalista dato con gli operai degli altri capitalisti. Questo rapporto fa rivelare solamente l'illusione di ogni capitalista, ma non cambia niente al rapporto fondamentale capitale-lavoro. Sapendo che non si trova nei confronti del suo operaio nella situazione del produttore di fronte al consumatore, ogni capitalista cerca di limitarne al massimo il consumo, diversamente detto capacità di scambio, il salario. Si augura, naturalmente, che gli operai degli altri capitalisti consumino al massimo la sua merce; ma il rapporto di ogni capitalista con i suoi operai è il rapporto generale del capitale con il lavoro. È precisamente di là che nasce l'illusione che, ad eccezione dei propri operai, tutta la classe operaia costituisce per lui consumatori e clienti, non operai, ma dispensatori di denaro. Si dimentica che, secondo Malthus, "l'esistenza stessa di un profitto su qualsiasi merce presuppone una domanda esterna a quella dell'operaio che l'ha prodotta", e che di conseguenza "la domanda dello stesso operaio non può essere mai una domanda adeguata". Dato che una produzione mette in movimento un'altra e che essa si crea così dei consumatori presso gli operai di un terzo capitale, ogni capitale ha l'impressione che la domanda della classe operaia, come è posta dalla stessa produzione, è una "domanda adeguata". Questa domanda posta dalla stessa produzione l'incita e deve incitarla a superare i limiti proporzionali in cui essa dovrebbe produrre rispetto agli operai; d'altra parte, se la "domanda esterna a quella dei loro stessi operai" sparisce o si assottiglia, la crisi esplode". Grundrisse o Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, Ed. La Nuova Italia, Tomo II, "Il Capitale".
    Ed ancora
    "Il capitale insegue, in effetti, non la soddisfazione dei bisogni, ma l'ottenimento di un profitto, ed il suo metodo consiste nel regolare la massa dei prodotti secondo la scala della produzione e non quest'ultima secondo i prodotti che dovrebbero essere ottenuti; c'è dunque conflitto continuo tra il consumo compresso e la produzione per riuscire a raggiungere il limite assegnato a quest'ultima, e siccome il capitale consiste in merci, la sua sovrapproduzione si riduce ad una sovrapproduzione di merci. Un fenomeno bizzarro è che gli stessi economisti che negano la possibilità di una sovrapproduzione di merci ammettono che il capitale possa esistere in eccesso. Tuttavia quando dicono che non c'è sovrapproduzione universale, ma semplicemente una sproporzione tra i diversi rami di produzione, affermano che in regime capitalista la proporzionalità dei diversi rami di produzione risulta continuamente dalla loro sproporzione; perché per essi la coesione della produzione tutta intera si impone ai produttori come una legge cieca, che essi non possono volere, né controllare. Questo ragionamento implica, inoltre, che i paesi dove il regime capitalista non è sviluppato consumano e producono nella stessa misura delle nazioni capitaliste. Dire che la sovrapproduzione è solamente relativa è perfettamente esatto. Ma tutto il sistema capitalista di produzione è solamente un sistema relativo i cui limiti sono assoluti solamente quanto si considera il sistema in sé. Come è possibile che talvolta degli oggetti che indubbiamente mancano alla massa del popolo non facciano l'oggetto di nessuna domanda del mercato, e come è che bisogna cercare allo stesso tempo degli ordini lontano, rivolgersi ai mercati stranieri per potere pagare agli operai del paese la media dei mezzi di esistenza indispensabili? Unicamente perché in regime capitalista il prodotto in eccesso riveste una forma tale che colui che lo possiede non può metterlo a disposizione del consumatore se non quando si riconverte per lui in capitale. Infine, quando si dice che i capitalisti non hanno che da scambiare tra loro e consumare loro stessi le loro merci, si perde di vista il carattere essenziale della produzione capitalista, il cui scopo è la messa in valore del capitale e non il consumo. Riassumendo tutte le obiezioni che vengono opposte ai fenomeni così evidenti della sovrapproduzione (fenomeni che si svolgono malgrado queste obiezioni), si torna a dire che i limiti che si attribuiscono alla produzione capitalista non essendo dei limiti inerenti alla produzione in generale, non sono neanche dei limiti di questa produzione specifica che si chiama capitalista. Ragionando così si dimentica che la contraddizione che caratterizza il modo capitalista di produzione, risiede soprattutto nella sua tendenza a sviluppare in maniera assoluta le forze produttive, senza preoccuparsi delle condizioni di produzione al centro delle quali si muove e può muoversi il capitale". Il Capitale, Volume III, capitolo 15: "lo sviluppo delle contraddizioni immanenti della legge", 3a parte.
     
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  14. pendola
     
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    Innanzitutto ciao a catinap cui va la prima risposta. Nel precedento intervento mi dicevo d'accordo col pulprok e rapresentavo alcuni dei limiti nella interpretazione della crisi data dalla luxenburg. La Luxemburg fece un lavoro meritorio tenendo alta la bandiera del crollo del capitalismo con la sua opera principale cioè "L'accumulazione del capitale" ma l'autrice non poteva tener conto degli sviluppi successivi del capitalismo in quanto morì prematuramente uccisa su incarico dei socialriformisti intorno alla prima guerra mondiale. "Aggiornatevi" poteva riferirsi solo a chi aveva già partecipato alla discussione rivendicando "L'accumulazione del capitale" a unico metro della crisi, fermandosi al suo contenuto arretrato. Per il resto ognuno segue i suoi percorsi e non dovrebbe essere questo a metterci in conflitto, ad ogni modo mi piace il tuo spirito di farti un idea con la tua testa indipendente. Per Osvaldo invece dico che c'e poca chiarezza, tu hai detto Chi è che consuma quello che gli operai non possono comprare? Polprpk ed io sono daccordo dice Se il problema è il mercato allora c'entrano relativamente le merci già prodotte perchè i nuovi settori cancellano quelli più arretrati rubando loro il mercato!. Allora o spieghi perchè questo non sarebbe possibile o parliamo del nulla. Dovresti onorare chi parla con la stessa determinatezza e precisione con cui sei stato onorato nella risposta. Ma ho visto già che tu sollevi polveroni per svicolare. Infatti nel primo scritto che hai proposto marx spiega quale è l'illusione del singolo capitalista, dei singoli che pagano gli operai, la produzione ne genera delle altre con i relativi salariati consumatori cioè la produzione genera la sua stessa domanda. Sono le illusioni del singolo capitalista sul piano fenomenico e l'illusione si smaschera quando la domanda esterna agli operai dei singoli capitali si ferma o diminuisce. Ma perchè si ferma o diminuisce? Rispondere perchè si saturano i mercati significa dire quello che i singoli capitalisti sono costretti ad ammettere muovendosi sul piano fenomenico, è una tautologia infatti lo dici tu e non marx. Egli ci dà la spiegazione essenziale nel frammento sul macchinismo che ti consiglio di leggere. Stesso discorso per il secondo brano che alleghi, il punto di vista borghese vede la crisi come sproporzione tra i settori e marx ridicolizza. Per capirci la sproporzione e strutturale come è strutturale la perequazione dei saggi di profitto, ma queste ridicolizzate da marx sono le contraddizioni del punto di vista del singolo capitalista, cosa c'entra con i settori nuovi che mangiano i vecchi di cui diceva polpork? Ancora una volta marx nel frammento sul macchinismo spiega cosa blocca la riproduzione stazionaria di cui parla polrpk cioè la composizione organica del capirale. Marx ridicolizza il punto di vista del singolo capitalista e proprio per questo ne assume un altro, quello del sistema coma un collegamento di tuti i fenomeni e perciò ci propone la composizione organica del capitale. Mi prometto a me di risponderti in modo meno impulsivo e sbavato così forse la prossima volta con la calma ti convinco

    Edited by pendola - 12/11/2011, 22:15
     
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  15. osvaldo4s
     
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    Innanzitutto non capisco perché una risposta impulsiva e sbavata (cito le tue parole). Non vorrei che su un tale argomento la discussione prendesse una piega a dir poco sgradevole, facendone anche un caso personale tra Te e me. Cosa che rigetto in maniera assoluta.

    Voglio sottolineare che se si parla di crisi non è per sfoggiare cultura salottiera (ti assicuro che non ne sarei capace in quanto non sono un intellettuale ma un lavoratore proletario) ma semplicemente per capire dove stiamo andando e che margini di sopravvivenza ancora ci può dare questo sistema e magari come fare a difenderci e/o se è veramente necessario abbatterlo.

    Intanto, ho semplicemente esposto quello che ho capito da certe letture soprattutto se confrontate alla realtà socio-politica ed economica, che, oltretutto, sto seguendo con una certa attenzione da più di vent’anni. Penso di condividerle e solo per questo ne ho riportato alcuni brani.

    La mia intenzione è capire, discutendo con correttezza e con riferimenti letterari riguardanti la lotta storica del movimento operaio (non è che possiamo negarli!) in rapporto e soprattutto alla nostra realtà di vita attuale, che natura ha, come si definisce e come interpretare, chiaramente da un punto di vista di classe, la crisi da sovrapproduzione citata da più parti nella letteratura marxista e cioè se è vero che:
    "L'universalità verso cui tende senza tregua il capitale incontra dei limiti immanenti alla sua natura che, ad un certo stadio del suo sviluppo, lo fanno apparire come il più grande ostacolo a questa tendenza e lo spingono alla sua autodistruzione". (Grundrisse).

    E se ciò è vero, che stadio del suo sviluppo stiamo vivendo in questo momento.

    Tu però mi fai una domanda precisa: Chi è che consuma quello che gli operai non possono comprare? Mi sembra di aver detto che Polprpk ed io sono daccordo dice Se il problema è il mercato allora c'entrano relativamente le merci già prodotte perché i nuovi settori cancellano quelli più arretrati rubando loro il mercato!

    Se non ho capito male cercherò di rispondere:

    Come sai, non ho detto che gli operai non possono comprare delle merci, ma che, pur comprandole, il loro salario non riesce a valorizzare il capitale investito in quel ciclo di produzione - che ha visto gli stessi all’opera - (e mi sembra che questa non sia solo una mia idea: Si dimentica che, secondo Malthus, "l'esistenza stessa di un profitto su qualsiasi merce presuppone una domanda esterna a quella dell'operaio che l'ha prodotta", e che di conseguenza "la domanda dello stesso operaio non può essere mai una domanda adeguata". Dato che una produzione mette in movimento un'altra e che essa si crea così dei consumatori presso gli operai di un terzo capitale, ogni capitale ha l'impressione che la domanda della classe operaia, come è posta dalla stessa produzione, è una "domanda adeguata". Questa domanda posta dalla stessa produzione l'incita e deve incitarla a superare i limiti proporzionali in cui essa dovrebbe produrre rispetto agli operai; d'altra parte, se la "domanda esterna a quella dei loro stessi operai" sparisce o si assottiglia, la crisi esplode".
    Scusa la ripetizione ma è necessario leggere attentamente questo brano.

    Detto ciò, penso che la risposta sia stata data proprio dalla Luxemburg quando afferma che la domanda idonea per valorizzare in grande scala quella parte di capitale investito, che né il salariato né il capitalista pur comprando merci riescono a valorizzare, può venire in gran parte solo da economie pre-capitaliste o non ancora capitaliste.

    Ora, seguendo questa logica, visto che i mercati precapitalisti e quelli non capitalisti si sono ridotti all’osso – inizio del 1900 – e visto che il salario non può creare mercato profittevole, chi lo deve creare questo mercato? O meglio chi compra queste merci per valorizzarne il capitale in esso contenuto sottoforma di plus-valore o diversamente detto sfruttamento lavorativo non pagato agli operai?

    In linea di massima, a fovorirlo ed a crearlo sono state rispettivamente particolari politiche e particolari politiche economiche. Per le prime mi riferisco ai capitalismi di Stato – che hanno caratterizzato la vita politica delle potenze imperialiste di quel periodo e fino ad oggi; per le seconde, tra le più conosciute e principali possiamo ricordare per esempio quelle keynesiane, che la borghesia mondiale ha dovuto usare già dalla crisi del 29 e che ha continuato ad usare nel subito dopo guerra (vedi per esempio il Piano Marshall). E così di seguito fino ai nostri giorni. Ma tali mercati non possono essere che fittizi visto che si bara proprio sulla legge del valore (a tale proposito leggere la nota 1 in basso).

    E pur vero che i nuovi “mercati” cancellano quelli più arretrati. Bisogna però ammettere che gran parti di essi sono stati creati con una corsa avanti nel credito, con maggiori investimenti nel capitale costante ed intensificando lo sfruttamento della classe operaia. Ma non per questo risolvono il loro peccato originale che resta invariato, e né tantomeno hanno la capacità di trasformare in meglio le condizioni di vita dei lavoratori (chiaramente parlo a livello mondiale e non del mio orticello europeo o nazionale che oltretutto non posseggo. Infatti, quando si parla per esempio del boom economico che è seguito alla seconda guerra mondiale - oltretutto durato a stento un ventennio - non bisognerebbe considerare le sole condizioni di produttività capitalista e di vita degli operai occidentali, ma anche quelle del resto del pianeta, anch’esso già capitalista).

    Tornando a questi nuovi mercati, essi per “funzionare” e per non esaurirsi subito, sotto la spinta della crisi sovrapproduttiva e della concorrenza sempre più accanita, che fa precipitare ulteriormente la caduta del saggio del profitto, hanno avuto quasi sempre e comunque bisogno di una ulteriore e più robusta iniezione di droga per trovare “nuovi sbocchi” (e questo spiega anche perché poi nessun boom economico dalla fine degli anni ’60 si è più riprodotto nel mondo), e solo attraverso ciò si sono impadroniti dei vecchi che oltretutto già non funzionavano più a quel livello di indebitamento … e così di seguito, una droga tira l’altra ed a livelli sempre più sostenuti, fino a che la crisi ha cominciato ad interessare non più imprese ma interi Stati del capitalismo mondiale, anzi interi blocchi imperialisti. Altrimenti come si spiegherebbe la caduta del blocco dell’Est all’inizio degli anni 90?. Ma ciò non è bastato ad interrompere un tale declino, perché l’indebitamento e cioè la droga mercantile ha continuato ad erodere anche il blocco economico più forte, quello dell’Ovest. Così anche Stati centrali ed economicamente forti, sono stati infine definiti insolventi dagli stessi indicatori economici della borghesia. La borghesia mondiale è arrivata oggi ad un punto tale che non può più permettersi una tale droga economica, ma come un drogato senza di essa non riesce a vivere, sempre che la sua si possa chiamare vita. E sta proprio qui il problema.

    1) Un aneddoto storico: Negli anni ‘30 di fronte alla crisi economica scoppiata nel 29, John Maynard Keynes, nelle varie riunioni che si facevano su tale argomento, sosteneva che un possibile rimedio per dare solvibilità alla domanda effettiva non più adatta, consistesse in un intervento pubblico nell'economia con misure di politica fiscale e monetaria, per garantire attraverso un’occupazione maggiore nuovi sbocchi alla domanda. Notando che tali misure esprimevano un netto contrasto con la teoria economica neoclassica e liberista, qualcuno, a giusto titolo, lo apostrofò dicendogli che così si barava proprio sulla legge del valore e che addirittura una tale politica, se pur potesse apportare momentaneamente dei benefici all’economia, non ne avrebbe garantito il futuro. Ma lui, Keynes, rispondeva: si è vero, ma noi in quel futuro probabilmente non ci saremo!

    Invece, aggiungo io, noi ci siamo in pieno!
     
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42 replies since 21/9/2011, 11:53   1375 views
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