Napoli Oltre

A proposito di violenza 1

Ricostruzione della discussione avvenuta fino al 22/01/2010 ore 17:40

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    lucio spartaco
    Inviato il: 27/12/2009, 13:05

    Ultimamente si è cianciato molto a sproposito di violenza (non su questo forum, ma altrove), per cui ho elaborato una riflessione personale su un tema su cui vale sempre la pena di spendere qualche parola.
    La violenza, intesa come comportamento individuale, ha senza dubbio un'origine più profonda e complessa, insita nella struttura sociale. Nelle realtà capitaliste, la violenza del singolo, la ribellione apparentemente senza causa, la follia, il vandalismo e il teppismo, la criminalità comune, la perversione di quei soggetti qualificati come “mostri”, sono sempre il frutto (marcio) di un’organizzazione sociale che ha bisogno di creare e alimentare odio e violenza, sono la manifestazione di un sistema che, per sua natura, genera divisioni e conflittualità, costringendo alla depravazione dell’animo umano che in tal modo viene intimamente condizionato dall’ambiente esterno.
    Dunque, la violenza non è una questione di malvagità individuale, ma un problema di ordine sociale, è la facciata esteriore dietro cui si ripara la violenza organizzata delle istituzioni, è lo strato superficiale e fenomenico sotto cui giace e s’incancrenisce la corruzione dell’ordine costituito. La visione che assegna alla “perfidia umana” la causa dei mali del mondo, è solo un’ingenua e volgare mistificazione. Il tema della violenza è talmente vasto e complesso da rivestire un ruolo centrale nella storia del genere umano.
    La crisi e la decadenza del sistema capitalistico guerrafondaio, ormai in fase di decomposizione avanzata, hanno creato un meccanismo perverso da cui discende la necessità di una produzione su scala industriale della violenza, del delitto, del "mostro", che serve come facile e comodo capro espiatorio per giustificare la richiesta, da parte dell'opinione pubblica, di nuovi interventi armati, repressivi e coercitivi.
    In tal modo trovano una precisa ragion d'essere i vari Saddam Hussein, Bin Laden ecc., i cosiddetti "criminali" che diventano uno spauracchio funzionale a una logica di riproduzione della violenza legalizzata, volta a perpetuare i rapporti di comando e subordinazione esistenti all'interno e all'esterno della società capitalistica. Una violenza che scaturisce e si alimenta soprattutto attraverso l'opera di disinformazione e terrorismo psicologico esercitata dai mezzi di comunicazione di massa per mantenere l'opinione pubblica in uno stato di permanente tensione e pressione.
    La violenza fa parte di una società che la disprezza e la demonizza quando a praticarla sono gli altri (in passato i Cinesi, i Vietnamiti, i Cubani, oggi gli arabi, gli islamici, i negri, i proletari, gli oppressi in genere), ma viene autorizzata in termini di diritto e potere istituzionale quando essa è opera del sistema stesso, in quanto intervento armato volto a mantenere l'ordine all'interno (in termini di repressione poliziesca) e all'esterno (in termini di guerre, come gendarmeria internazionale).
    In tal senso la violenza viene disapprovata quando è opera d'altri. Si pensi alla rivolta di massa che alcuni anni fa esplose con furore nella banlieue parigina, espandendosi rapidamente ad altre periferie urbane della Francia. Sempre in Francia, tempo addietro abbiamo assistito alla nascita di un movimento di protesta giovanile che ha assunto proporzioni di massa, simili, benché non paragonabili all'esperienza storica del maggio 1968, nella misura in cui le cause e il contesto erano senza dubbio differenti.
    Per comprendere tali fenomeni sociali così complessi e difficili, occorre rendersi conto di ciò che sono effettivamente diventate le aree metropolitane suburbane in Francia (ma il discorso vale anche altrove), cioè luoghi di ghettizzazione e alienazione di massa.
    Per capire bisognerebbe calarsi nella realtà quotidiana dove il disagio sociale, il degrado urbano, la violenza di classe, la precarietà economica, la disperazione e l’emarginazione dei giovani (soprattutto extracomunitari) costituiscono il background materiale e ambientale che genera inevitabilmente esplosioni di rabbia e guerriglia urbana.
    Invece, tali vicende sono bollate come atti di “teppismo”, “delinquenza” o addirittura “terrorismo”, secondo parametri razzisti e classisti tipici di una mentalità ipocrita e benpensante che da sempre appartiene alla borghesia. Tali vicende sono strettamente associate da un denominatore comune: la violenza, nella fattispecie la violenza istituzionalizzata e il monopolio di legalità imposto nella società.
    Su tale argomento varrebbe la pena di spendere qualche parola per avviare un ragionamento storico, critico e politico il più possibile serio e rigoroso.
    In effetti, è alquanto difficile determinare e concepire la violenza come un comportamento etologico ed istintivo, naturale ed immutabile, dell’essere umano, poiché è la natura stessa della società il vero principio che genera i criminali, i violenti in quanto singoli individui, che sono spesso i soggetti più vulnerabili sul piano emotivo, che finiscono per essere il "capro espiatorio" su cui si scaricano tutte le tensioni, le frustrazioni e le conflittualità latenti, insite nell'ordinamento sociale vigente.
    Durante la sua evoluzione culturale e materiale l’umanità ha creato e conosciuto varie esperienze di violenza: la guerra, la tirannia, l’ingiustizia, lo sfruttamento, la fatica per la sopravvivenza, il carcere, la repressione, la rivoluzione, fino alle forme più rozze quali il teppismo, la prepotenza, la sopraffazione del singolo su un altro singolo.
    Tuttavia, tali fenomeni così disparati si possono ricondurre a un’unica matrice causale, ossia la natura intrinsecamente violenta e disumana della struttura materiale su cui si erge l’organizzazione sociale dei rapporti umani nel loro divenire storico. La cui principale forza motrice risiede nella violenza della lotta di classe, nello scontro tra diverse forze economiche e sociali per il controllo e il dominio sulla società. Tale lotta di classe si estrinseca sia sul terreno materiale, sia sul versante teorico e culturale, è una lotta per la conquista del potere politico ed economico, ma anche per l'affermazione di un'egemonia ideologica e intellettuale all'interno della società.
    Il problema fondamentale della violenza nella storia (che è scisso dal tema della violenza nel mondo pre-istorico) è costituito dall’ingiustizia e dalla violenza insite nel cuore delle società classiste. Le quali si fondano sulla divisione dei ruoli sociali e sullo sfruttamento materiale esercitato da una classe dominante sul resto della società.
    Solo quando lo sviluppo delle capacità produttive e tecnologiche della società avrà raggiunto un livello tale da permettere il superamento delle ragioni che finora hanno giustificato e determinato lo sfruttamento del lavoro, l’umanità potrà compiere il grande balzo rivoluzionario che consisterà in un processo di liberazione dalla violenza dell’ingiustizia e dello sfruttamento di classe. E’ un dato di fatto che tali condizioni, connesse al progresso tecnico scientifico e alla produzione delle ricchezze sociali, siano già presenti nella realtà oggettiva, ma sono mistificate e negate dal persistere di un quadro obsoleto di rapporti di supremazia e sottomissione tra le classi sociali.
    In tal senso, il potere borghese non è mutato, i suoi rapporti all’interno e all’esterno sono sempre improntati e riconducibili alla violenza. Esso continua a reggersi sulla violenza, in particolare sulla forza legalizzata di istituzioni repressive quali il carcere, la polizia, l’esercito. Nel contempo il potere borghese ha imparato ad usare altre forme di controllo sociale, più morbide e addirittura più efficaci, come la televisione. Oggi, infatti, molti stati capitalistici, avanzati sul versante tecnologico, sono gestiti e controllati non solo attraverso i sistemi tradizionali della violenza legalizzata, cioè esercito e polizia, ma soprattutto ricorrendo agli effetti di omologazione e alla forza alienante e persuasiva della televisione e dei mezzi di comunicazione di massa.
    Naturalmente il discorso sulla violenza non può esaurirsi in un breve esame come questo, giacché si tratta di un tema talmente ampio, difficile e controverso, da meritare molto più spazio, più tempo, più studio e più ingegno di quanto possa fare il sottoscritto. Per quanto mi riguarda, ho cercato semplicemente di sollecitare una riflessione iniziale.

    lucio spartaco
    Inviato il: 27/12/2009, 21:33

    Mi permetto di aggiungere un'ulteriore puntualizzazione (spero non schematica o riduttiva) rispetto all’argomento trattato, che inevitabilmente rischia di scadere in una semplificazione sommaria, vista la necessità di una sintesi.
    In generale esiste una differenza sostanziale tra la violenza nel mondo primitivo e la violenza nelle società moderne. Anzitutto dal punto di vista politico. Il monopolio della violenza, nelle società moderne è appannaggio esclusivo dell’autorità statale. Invece, nelle società primitive, comprese alcune società pre-capitalistiche, domina ancora lo stato di natura in cui l’esercizio della violenza non è monopolizzato da un "Leviatano" inteso come forza superiore, mostruosa e spaventosa, che esercita un’azione coercitiva e frenante nei confronti degli istinti individuali.
    E’ lo stato moderno che si arroga il diritto di reprimere la violenza e il delitto commessi dall’individuo in nome di una legalità o autorità superiore (non più sacra o religiosa, derivante da dio, ma laica e civile, scaturita cioè da un principio terreno) al fine di imporre e stabilire, tramite la forza, l’ordine sociale. Altrimenti il caos regna sovrano, questa è almeno la giustificazione più banale e comune: "Homo homini lupus".
    Ma questo sistema presenta i suoi "effetti collaterali", che in realtà non costituiscono semplicemente il risultato di un processo di degenerazione e corruzione, bensì formano l’essenza stessa dello stato moderno. Mi riferisco all’origine e alla natura classista, ingiusta e violenta, dello stato. Il quale esercita arbitrariamente la propria forza repressiva con il pretesto di ridurre e contenere la delinquenza e il crimine, ma in realtà perseguita e punisce solo le violenze commesse dagli oppressi e dagli sfruttati, mentre non impedisce, anzi difende e sancisce i delitti perpetrati dagli sfruttatori.

    osvaldo4s
    Inviato il: 31/12/2009, 13:14

    In linea di massima condivido molti aspetti della riflessione del compagno Lucio Spartaco sul concetto di violenza riconducibile a sistemi di sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Ed a questi non fa eccezione il capitalismo, soprattutto come lo viviamo oggi: decadente e decomposto. Sono anche io convinto che la soluzione della violenza come fenomeno storico della società umana venga risolto in una società che non ha bisogno più dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo per riprodurlo socialmente, e che si caratterizzerà come una unica comunità umana finalmente libera dalla necessità della fatica quindi non alienata dalla natura umana ed in armonia con lo stesso ambiente naturale: una società comunista.
    Su alcuni punti, che non ho ben capito, desidererei delle spiegazioni da parte del compagno Lucio, mentre su altri ho sottolineato ciò che a me potevano sembrare delle ambiguità sul concetto di oppressi e classe sociale. Riporto in corsivo questi punti scritti dal compagno Lucio per rendere poi le richieste di spiegazione o le mie impressioni più dirette:
    1) In tal modo trovano una precisa ragion d'essere i vari Saddam Hussein, Bin Laden ecc., i cosiddetti "criminali" che diventano uno spauracchio funzionale a una logica di riproduzione della violenza legalizzata, volta a perpetuare i rapporti di comando e subordinazione esistenti all'interno e all'esterno della società capitalistica.
    Domanda: che cosa si intende per … all'esterno della società capitalistica ?
    2) La violenza fa parte di una società che la disprezza e la demonizza quando a praticarla sono gli altri (in passato i Cinesi, i Vietnamiti, i Cubani, oggi gli arabi, gli islamici, i negri, i proletari, gli oppressi in genere),….
    Gli altri e cioè i cinesi, i vietnamiti i cubani gli arabi, gli islamici, i negri, ed io aggiungo le donne, gli omosessuali, gli ebrei, ecc. sono categorie sociali, e ciò è indiscutibile. Tuttavia, non tutti i cinesi sono oppressi e sfruttati, non tutti i … ecc. ecc. per cui tu parli di oppressi (ovvero di altri) e nel termine oppressi o di altri sembri diluire le classi sociali. Per esempio i negri del Sud africa, mentre prima subivano una violenza razzista, oltre ad essere sfruttati come proletari ed è questo l’aspetto che sottolineo, oggi nonostante l’abolizione dell’apartheid (avvenuta negli anni 1980) subiscono una maggior oppressione ed una maggiore violenza proprio per un maggiore sfruttamento. Anche là la crisi ha svelato l’aspetto mistificatorio classista e razzista mettendo a nudo il principale e cioè quello di una classe sfruttatrice di tutti i proletari ed in qualsiasi parte del mondo. La borghesia, al di là del fatto se è bianca, gialla, nera, cubana, femminista, occidentale, orientale, religiosa, islamica, atea, ecologica, omosessuale, anche se oppressa da altre borghesie più potenti, è uguale ed è criminale dappertutto. E tutto ciò è ben visibile nella fase di decadenza del capitalismo.
    3) Il monopolio della violenza, nelle società moderne è appannaggio esclusivo dell’autorità statale. Invece, nelle società primitive, comprese alcune società pre-capitalistiche, domina ancora lo stato di natura in cui l’esercizio della violenza non è monopolizzato da un "Leviatano" inteso come forza superiore, mostruosa e spaventosa, di un’azione coercitiva e frenante nei confronti degli istinti individuali.
    Rispetto a ciò, non mi pare che le classi dominanti e sfruttatrici delle società pre-capitaliste (schiavista, feudale) non usassero, anch’esse, violenza (di classe) attraverso il loro strumento di oppressione e sfruttamento, il loro Stato, escludendo così un esercizio di un’azione coercitiva e frenante nei confronti degli istinti individuali.
    O non ho capito bene il tuo concetto o per favore chiarisci meglio questo concetto.
    Io, invece, volevo aprire alla discussione un altro aspetto su questo argomento. Quello sulla violenza a cui è costretta una classe che si ribella alla violenza della classe opprimente e sfruttatrice, in poche parole sulla violenza rivoluzionaria e soprattutto sui riflessi di quest’ultima sull’individuo proletario o rivoluzionario (che sia), che si batte per un mondo migliore e per l’abolizione di ogni forma di violenza. Personalmente aborrisco il dolore umano e sotto certi aspetti anche quello animale (dico questo perché ancora mangio proteine animali). Tuttavia, di fronte alla violenza perpetrata dallo Stato borghese sull’intero proletariato mondiale, sottoposto ogni giorno ed in maniera sempre più intensa allo sfruttamento spietato o alla disoccupazione, alla fame, alla miseria, macellato nelle trappole dalle loro sporche e sanguinarie guerre … e chi più ne ha più ne metta, provo immediatamente un impulso antagonista e così violento nei confronti del cinismo borghese e delle persone fisiche che lo interpretano tale da diventare teoricamente forse più violento di loro (nel senso che nutro un sentimento cattivo e di odio nei confronti di quella/e persona/e). In altre parole percorro lo stesso sentimento che la borghesia usa per giustificare la pena di morte: “il desiderio perverso di far coincidere un atto di giustizia sociale con il desiderio di vendetta da parte dei famigliari della vittima (A. Sofri)”. E non vorrei averlo mi sento contraddittorio! Che cosa ne pensano i compagni?

    Bogdanov
    Inviato il: 1/1/2010, 14:28

    Sto seguendo con attenzione questa discussione sulla violenza.
    C’è una tesi, sostenuta da entrambi i compagni che sono intervenuti come sfondo dei loro ragionamenti, per la quale, a dirla con Rousseau, “l’uomo nasce buono ma sono le circostanze a renderlo cattivo”. Concordo solo con la seconda proposizione di questa affermazione ma sono totalmente in disaccordo con la prima.
    Ho accennato a questo problema in uno scritto che è su questo Forum, “Scienza”, e credo sia necessaria una riflessione più ampia sulla violenza e sulle sue radici.
    Ai tempi di Rousseau e fino a primi decenni del secolo scorso mancavano conoscenze quali l’antropologia, l’etologia e la psicologia ed il pensiero della sinistra era impregnato dell’ottimismo del progresso; tutto ciò portava a considerare che fossero solo le circostanze a decidere i tratti espressivi della natura umana, ma era proprio questa natura l’oggetto non conosciuto. Intuitivamente i grandi filosofi dell’antichità comprendevano il potere delle “circostanze” per cui, a dirla con Diogene, “per la felicità umana bisogna abolire il potere ed il danaro”, perché le “circostanze” agiscono potentemente nell’esaltare aspetti della natura umana insiti nell’uomo stesso, ma non nel generarli: questo è il punto cruciale.
    All’origine della costituzione della società degli uomini (ed è dubbia la correttezza del termine società, almeno in senso scientifico) vi è una consociazione di predatori di savana; gli uomini si univano per poter aggredire prede più grosse, né più né meno della logica con cui si forma un’associazione criminale. Il comportamento predatorio è istinto, ed in quanto tale, inestirpabile dal genoma in cui è codificato. In questo senso pare inesatto parlare di società, poiché in natura le società si costituiscono per la cura della prole (es. api, formiche, ecc.) obbedendo ad una estensione dell’istinto parentale in senso cooperativo. Nell’uomo non è così.
    La società degli uomini contiene una contraddizione, la madre di tutte le contraddizioni sociali, cioè il conflitto tra la coooperazione, indispensabile per assicurare livelli di sopravvivenza, e la competizione, eredità dell’istinto predatorio. Per millenni le società umane sono vissute nel precario equilibrio tra queste due polarità, dando forma, a seconda dei mezzi di produzione disponibili, alla successione di forme sociali indicata da Marx nel materialismo storico. La forma sociale cambiava al cambiare dei mezzi di produzione, ma rimaneva intatta la contraddizione poiché essa non intaccava ancora la capacità di sopravvivenza degli uomini. Si ebbe una svolta quando i mezzi di produzione imposero il più alto grado di cooperazione concepibile, il grande opificio industriale, poiché a quel punto fu chiaro il nodo di violenza contenuto nella appropriazione individuale della produzione sociale e fu altrettanto chiaro che le forme statali, in definitiva, avevano lo scopo di esercitare violenza per imporre l’estrazione del prodotto del lavoro da parte della classe al potere. In questo preciso significato il capitalismo è la massima esaltazione dell’istinto predatorio e l’ostacolo alla continuazione dell’evoluzione psicosociale degli uomini.
    L’evoluzione psicosociale è il contenuto della civiltà, un contenuto che, proprio perché acquisito, dobbiamo ricostruire da capo in ogni nuovo individuo che nasce. Il suo significato consiste in un condizionamento culturale e sociale che svalorizza l’aggressività e l’egoismo e crea l’idoneità dell’individuo alla vita sociale. Possiamo immaginarlo come un rivestimento della matrice istintuale, facile a lacerarsi quando le “circostanze” (forme culturali, stati di emergenza, sistemi sociali, ecc.) risospingono l’individuo verso l’egoismo. Il comunismo, lo dico di passata, proprio perché demotiva l’egoismo sociale, è la condizione più stabile a cui si possa pensare per assicurare l’ulteriore sviluppo dell’evoluzione psicosociale degli uomini. Inoltre, proprio perché il capitalismo nega questa evoluzione in atto, è altrimenti costretto a reprimere anche lo sviluppo dei mezzi di produzione, tentando, per così dire, di congelare scienza e tecnica, economia e cultura allo stadio attuale. Scusate la fastidiosa e sommaria esposizione ma serviva per spiegare che la lotta contro le forme di proprietà privata non è un atto di giustizialismo ma la sola forma possibile di progresso dell’umanità, a cui il capitalismo risponde con la violenza, che è violenza economica, militare, culturale, statale.
    Ma una classe oppressa ha il diritto di servirsi della violenza per liberarsi? E quali conseguenze implica, sul piano dei contenuti spirituali, la teorizzazione della violenza?
    Una delle tantissime ragioni per cui dichiaro la mia irriducibile ostilità col terrorismo è il fatto che esso, proprio perché teorizza la violenza, mutua l’ideologia borghese, si contrappone alla borghesia sul suo stesso piano; il suo agire, di fatto, propaganda ideologia borghese.

    Bogdanov
    Inviato il: 4/1/2010, 14:14

    Può servire a questa discussione qualche notazione storica.
    Le rivoluzioni sono sempre state descritte come eventi sanguinari; è un falso. In sè la rivoluzione è un evento democratico; il fatto è che le rivoluzioni hanno però sempre dovuto difendersi dalle aggressioni di rivincita delle classi al potere e ciò comporta lotta e violenza.
    Il Tribunale del Terrore fu istituito in Francia quando le potenze europee si coalizzarono per aggredire la Rivoluzione Francese. Il danaro inglese operava corruzioni (Danton ricevette dal governo britannico circa 70 000 franchi-oro, una cifra immensa) e non pochi degenerati approfittavano delle circostanze per abusare di tutto.
    Una volta volevo conoscere il caso di Lavoiser e studiai tutta la documentazione del Tribunale del Terrore. Lavoiser, detto in breve, fu il fondatore della chimica moderna ma aveva speculato sugli assegnati insieme a due lestofanti, i fratelli Perregroux.
    Vi furono abusi ed esagerazioni, ma in totale le condanne irrogate da quel tribunale furono poco più di 2000, a stragrande maggioranza speculatori, generali che avevano deliberatamente mandato a distruzione i loro reparti, profittatori di regime, cospiratori sanguinari, compreso Luigi XVI e sua moglie. La Francia aveva alle porte gli eserciti europei, questo era lo sfondo del momento e, singolarmente, i moderati del Comitato di Salute Pubblica, che di fatto dirigeva il Tribunale, erano Robespierre e Saint Just, che frenavano i sanguinari come Couton, Billaud-Verenne, Collot d'Erbois e Lazzaro Carnot. Ma fino a quel momento la Rivoluzione non ebbe bisogno di condanne. Gli abusi e gli eccidi furono commessi a Nantes ed altrove da coloro che poi diedero vita al termidoro e si ritrovarono in posizioni di potere con il Direttorio e con Napoleone. Non viene mai detto che il Tribunale del Terrore decretò almeno un numero doppio di assoluzioni.
    Durante la presa del Palazzo d'Inverno nel 1917, vi furono qualche decina di morti, tra i Cadetti dell'Accademia Militare ed il Reggimento Femminile e circa 20 operai (relazione ufficiale al Soviet di Antonoov-Ovoscenko).
    Qual'era lo spirito dei rivolzionari?
    Trotskji protesse personalmente dal linciaggio i ministri del deposto governo Kerenskji, gli stessi che lo avevano incarcerato e che volevano fucilarlo. Furono rilasciati sulla parola. Il generale zarista Denikin, sconfitto in campo, fu anch'esso rilasciato sulla parola con la promessa di non combattere più contro la rivoluzione.
    Ma anche allora la rivoluzione dovette difendersi contro un'aggressione internazionale che mandava truppe e finanziava gli eserciti reazionari.
    Accadde la stessa cosa con la rivoluzione inglese di Cromwell. Sconfitto in parlamento il re Giacomo I, sostenuto dalle monarchie europee, armò un esercito mercenario. Ma fino a quel momento non ci fu bisogno di violenza.
    Voglio solo ricordare il destino delle rivoluzioni sconfitte, i mari di sangue versati dalla reazione contro i popoli che le avevano appoggiate.
    Le rivoluzioni non vincono perché sparano di più: la rivoluzione dei soviet vinse perché convinse a passare dalla sua parte i reparti militari comandati a reprimerla.
    Il contenuto di una rivoluzione è l'affermazione della maggioranza su una classe sfruttatrice, dunque l'atto più democratico e civile che si possa concepire.
    Bisogna fare moltissima attenzione a non trasformare, mai, l'odio contro lo sfruttamento, ingiustizia, la perversione della borghesia in odio contro le persone. Una rivoluzione chiede giustizia, la impone se è il caso, ma aborre meschine vendette: è l'opposto della logica terroristica.
    Non viene mai menzionato, ma che fine fecero in URSS gli ex capitalisti, gli ufficiali dello Zar, i proprietari fondiari?
    Trotskji arruolò nell'Armata Rossa 50 000 ufficiali del''ex esercito zarista, moltissimi dirigenti industriali collaborarono attivamente coi soviet e furono integrati nello stato operaio, molti proprietari fondiari accettarono il nuovo regime. Molti altri emigrarono liberamente, senza ostacoli. La loro persecuzione, quando ci fu, risale al termidoro sovietico, allo stalinismo. Gorkij, che visse a Sorrento fino al 1927, ne incontrò parecchi e sono citati nella sua corrispondenza.
    Capisco, e condivido, l'indignazione dei compagni per i delitti sanguinari della borghesia, ma attenzione: l'uso ragionevole della necessaria energia rivoluzionaria non può trascendere in sentimenti, quali odio e vendetta, che contraddicono il contenuto di civiltà superiore della rivoluzione.
    Questi sentimenti incivili e brutali costarono la vita agli internazionalisti nel corso della resistenza perché essi si opponevano all'uccisione dei soldati tedeschi in quanto proletari in divisa.
    Marx dice che la violenza è la levatrice della storia: ma il compito di una levatrice è quello di salvare bambino e madre, anche se il parto è doloroso. Una levatrice malaccorta rischia di uccidere entrambi.

    lucio spartaco
    Inviato il: 8/1/2010, 10:57

    Negli ultimi giorni sono stato molto occupato dalla preparazione di un appuntamento estremamente importante della mia vita privata, ossia il mio matrimonio, per cui non ho potuto seguire ed aggiornare in modo regolare la lettura dei vari commenti sul forum. Così, solo ora ho letto questo commento del compagno Osvaldo4s, che sollecita un mio intervento chiarificatore su alcuni punti specifici.
    Proverò a rispondere brevemente alle sue domande.
    Prima domanda: "che cosa si intende per … all'esterno della società capitalistica?"
    Con questa espressione, forse poco felice e piuttosto equivoca, non intendevo certo riferirmi a formazioni economico-sociali che vivono all'esterno del mondo capitalistico, in quanto sono inesistenti nella realtà storica contemporanea. Invece, intendevo alludere al contesto interno ed esterno degli stati nazionali in cui la società borghese si chiude per ragioni di convenienza e di autoconservazione. Quindi, mi riferivo ai rapporti di forza borghesi interni ed esterni agli assetti politici degli stati nazionali.
    Seconda questione: "Gli altri e cioè i cinesi, i vietnamiti i cubani gli arabi, gli islamici, i negri, ed io aggiungo le donne, gli omosessuali, gli ebrei, ecc. sono categorie sociali, e ciò è indiscutibile. Tuttavia, non tutti i cinesi sono oppressi e sfruttati, non tutti i … ecc. ecc. per cui tu parli di oppressi (ovvero di altri) e nel termine oppressi o di altri sembri diluire le classi sociali. Per esempio i negri del Sud africa, mentre prima subivano una violenza razzista, oltre ad essere sfruttati come proletari ed è questo l’aspetto che sottolineo, oggi nonostante l’abolizione dell’apartheid (avvenuta negli anni 1980) subiscono una maggior oppressione ed una maggiore violenza proprio per un maggiore sfruttamento. Anche là la crisi ha svelato l’aspetto mistificatorio classista e razzista mettendo a nudo il principale e cioè quello di una classe sfruttatrice di tutti i proletari ed in qualsiasi parte del mondo. La borghesia, al di là del fatto se è bianca, gialla, nera, cubana, femminista, occidentale, orientale, religiosa, islamica, atea, ecologica, omosessuale, anche se oppressa da altre borghesie più potenti, è uguale ed è criminale dappertutto. E tutto ciò è ben visibile nella fase di decadenza del capitalismo."
    Sono perfettamente d'accordo con il concetto espresso dal compagno Osvaldo4s, il quale ha ampliato e sviluppato chiaramente l'argomento che intendevo esporre, mettendo in evidenza il meccanismo ingannevole e mistificatorio insito in determinate categorie logiche, di cui occorre svelare e denunciare la matrice classista, violenta e razzista.
    Terza ed ultima questione: "Il monopolio della violenza, nelle società moderne è appannaggio esclusivo dell’autorità statale. Invece, nelle società primitive, comprese alcune società pre-capitalistiche, domina ancora lo stato di natura in cui l’esercizio della violenza non è monopolizzato da un "Leviatano" inteso come forza superiore, mostruosa e spaventosa, di un’azione coercitiva e frenante nei confronti degli istinti individuali.
    Rispetto a ciò, non mi pare che le classi dominanti e sfruttatrici delle società pre-capitaliste (schiavista, feudale) non usassero, anch’esse, violenza (di classe) attraverso il loro strumento di oppressione e sfruttamento, il loro Stato, escludendo così un esercizio di un’azione coercitiva e frenante nei confronti degli istinti individuali. O non ho capito bene il tuo concetto o per favore chiarisci meglio questo concetto."
    Per un bisogno di sintesi non sono riuscito ad analizzare in modo approfondito e completo il tema sollevato. Probabilmente nemmeno un voluminoso trattato di centinaia di pagine avrebbe potuto esaurire un argomento tanto vasto e complesso. Ma è un dato evidente e inoppugnabile che anche in epoche e società pre-capitalistiche (ad esempio, il modo di produzione antico orientale, quello schiavista e il modo di produzione aristocratico-feudale) i rapporti materiali di forza e di sfruttamento, insiti in tali formazioni economiche e sociali, venivano mantenuti e perpetuati attraverso il ricorso ad uno strumento di repressione e coercizione politica e militare, ossia una forma di organizzazione statale che deteneva il monopolio della violenza ed esercitava un'azione frenante nei confronti degli individui al fine di assicurare e preservare l'ordine costituito. Nessuno, tantomeno il sottoscritto, ha mai pensato di negare questo elemento storico. Tuttavia, per evidenti ragioni di spazio non mi è stato possibile sviscerare ed analizzare in maniera completa ed esaustiva un discorso che esige molto più spazio, più tempo, più studio e più ingegno di quanto abbia potuto fare il sottoscritto...

    Eduardo20
    Inviato il: 11/1/2010, 01:22

    Cari compagni, trovo molto interessante questa discussione sulla violenza e lo sviluppo successivo sulla natura umana. Bravo il compagno Lucio che ha lanciato questa discussione molto bella anche se molto difficile e bravi gli altri compagni che lo hanno sviluppato. In particolare credo che l'intervento di Bogdanov sia molto importante, al di là degli accordi o disaccordi che si possono esprimere, per l’apertura a nuove problematiche che sono insite nel suo intervento. In questo mio intervento voglio in particolare sviluppare qualche elemento di risposta proprio all’intervento di Bogdanov. Mentre sono completamente d'accordo con il compagno sul significato che lui attribuisce alla violenza nel processo rivoluzionario (cioè che questa costituisce solo uno strumento e non il fine del processo) e sul fatto che la principale forza della rivoluzione sta nella sua capacità di persuasione nei confronti della gran parte della popolazione, sono meno d'accordo con la visione del compagno secondo cui "homo homini lupus", cioè che esisterebbe un istinto geneticamente impresso nell'umanità alla competizione e all'aggressione reciproca. Il compagno afferma infatti che:
    “All’origine della costituzione della società degli uomini (...) vi è una consociazione di predatori di savana; gli uomini si univano per poter aggredire prede più grosse, né più né meno della logica con cui si forma un’associazione criminale. Il comportamento predatorio è istinto, ed in quanto tale, inestirpabile dal genoma in cui è codificato.”
    Io non credo che esista nel DNA dell’uomo questo istinto alla predazione, ma semplicemente che, per potersi sfamare, l’uomo primitivo fosse costretto ad andare a caccia così come oggi, per soddisfare la stessa esigenza, va al bar la mattina o al mercato per preparare da mangiare la sera. D’altra parte, se pure vogliamo riconoscere un istinto innato alla predazione nel genere umano, questo istinto si esauriva nella misura in cui veniva trovata la preda da consumare e non aveva ripercussioni nei confronti degli altri componenti del genere umano. Questa operazione veniva compiuta, peraltro, in maniera associata e cooperativa, motivo per cui, contrariamente a quanto sembra sostenere il compagno, la cooperazione e la solidarietà sono dei comportamenti che si sarebbero imposti fin dai tempi della preistoria. Un altro elemento che non mi quadra nell’intervento del compagno riguarda la sua ricostruzione storica che sembra suggerire il susseguirsi dei vari modi di produzione come una semplice espressione di questo egoismo genetico della specie umana e non della penuria in cui si è sviluppata la società e del necessario sopravvento di un regime di classe, come prospettato da Engels nell’“Origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato”.
    In ogni caso, c'è un articolo che ho ritrovato per l'occasione e che mi pare rispondere a gran parte delle questioni poste nel dibattito in corso. L'articolo si chiama: "Da una nostra riunione pubblica: è possibile costruire una società comunista?" e lo si può scaricare dal sito della Corrente Comunista Internazionale all’indirizzo seguente: http://it.internationalism.org/rziz/2004/136/comunismo
    A presto, un abbraccio a tutti, Eduardo

    Bogdanov
    Inviato il: 11/1/2010, 14:34

    Caro Eduardo, se ricostruiamo la storia naturale dell'uomo e delle prime consociazioni umane troveremo forse il modo di comprendere come nel DNA umano si sono stabilizzati gli istinti predatori ed aggressivi.
    In origine l'uomo era vegetariano, una speciazione delle scimmie antropomorfe arboricole. Viveva di prodotti vegetali (foglie, frutti, bacche, ecc.). Ciò è testimoniato dalla appendicite che in origine era una sacca in cui vi erano batteri simbionti che aiutavano a digerire la materia vegetale. In seguito l'uomo divenne animale di savana. Il passaggio è cruciale, perchè nella savana non trovava cibo sufficiente e dovette modificare il suo registro alimentare, adattandosi a digerire proteine della carne di altri animali. La selezione naturale favorì quegli individui che avevano l'istinto aggressivo più forte, più capaci di uccidere e di nutrirsi meglio, ed, evolutivamente parlando, emerse l'uomo come predatore, il tipo umano che si è trasmesso fino a noi. Le consociazioni umane nacquero per aggredire insieme animali più grossi e le gerachie umane cominciarono a formarsi in base alla ferocia individuale.
    Tu scrivi"Un altro elemento che non mi quadra nell’intervento del compagno riguarda la sua ricostruzione storica che sembra suggerire il susseguirsi dei vari modi di produzione come una semplice espressione di questo egoismo genetico della specie umana e non della penuria in cui si è sviluppata la società e del necessario sopravvento di un regime di classe, come prospettato da Engels nell’“Origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato”.
    Francamente non sono d'accordo con Engels su questo punto, perchè lo sviluppo dei mezzi di produzione è proscrittivo e non prescrittivo. Perchè "necessario sopravvento di un regime di classe"? perchè "necessario"? questo aggettivo non riconosce il fatto che le società classiste si sono evolute a partire dalla distruzione delle forme di comunismo primitivo. Altrove, presso i Maya, ad esempio, le forme di comunismo primitivo giunsero fino a dar vita a civiltà evolutissime, senza alcuna necessità di un vero regime di classe (la ripartizione dei raccolti era egualitaria, privilegiando vedove, orfani ed anziani).
    E' un'illusione hegeliana ("ciò che è reale è razionale") dire "necessario".
    Ma la di là di questo: esiste un tratto comune di tutte le società classiste? e qual'è? Oppressione e sfruttamento, ovviamente. E nel desiderio di sfruttare ed opprimere per il proprio vantaggio quale sentimento è contenuto? Strappare agli uomini il prodotto della loro fatica, asservirli, disporre delle loro esistenze, ecc. non è forse istinto predatorio?
    Ed è questo, l'essere ed agire del predatore di savana, che si è riproposto in tutte le società classiste, ed è in nome di esso che, con lo sviluppo dei mezzi di produzione, l'organizzazione sociale veniva modificata, o riedificata, avendo questo istinto come principio informatore.
    Marx coglie la contraddizione tra il lavoro cooperativo della grande industria e l'appropriazione individuale del prodotto di questo lavoro. Il capitalismo, dice, ha portato fino alle estreme conseguenze questa contraddizione. Ma questa contraddizione esisteva anche prima, è praticamente esistita in tutta la storia delle società organizzate, e la storia umana è storia di questa contraddizione.

    lucio spartaco
    Inviato il: 13/1/2010, 11:40

    Il contributo del compagno Bogdanov ha fornito un prezioso spunto di analisi scientifica altamente raffinata e mi trova d'accordo anzitutto sul piano della riflessione dedicata alla natura umana e al comunismo primitivo, quindi concordo sull'annotazione critica rivolta ad Engels e al determinismo antidialettico ed antistorico di origine tardopositivistica.
    Non a caso, il pensiero filosofico e scientifico positivistico, egemone culturalmente nell'ultima parte del secolo XIX, ispirò notevolmente l'opera di Engels negli ultimi anni della sua vita. Come dimostra la produzione bibliografica engelsiana di questo periodo: si pensi, ad esempio, all'Anti-Dühring, in cui la riaffermazione sistematica dei principi posti alla base del materialismo storico-dialettico finisce addirittura per deformare e (di conseguenza) depotenziare la forza d'urto e l'energia rivoluzionaria contenuta nella dialettica e nella critica marxiana espressa già a partire dalle opere giovanili di Marx e di Engels.
    Infatti, è quasi un ossimoro concettuale, una contraddizione terminologica, parlare di "necessità" intesa in termini rigidamente astorici e adialettici, e applicata in un contesto di indagine conoscitiva quale la storia umana. Laddove invece intervengono non tanto leggi di necessità, come possono essere concepite le leggi fisiche e matematiche adottate nell'ambito delle scienze esatte, le quali non trovano un riscontro meccanicistico, bensì dialettico, nel mondo della natura. Parimenti, nel campo storico esistono non leggi fisse, meccanicamente intese, bensì tendenze e linee di sviluppo che interagiscono e s'intrecciano tra loro, contrastandosi spesso vicendevolmente e (appunto) dialetticamente.
    Almeno questa è la mia chiave interpretativa della dialettica storica e naturale, che lo stesso Engels, sotto la diretta influenza esercitata dalla cultura positivistica dominante in quegli anni, quando l'amico Karl Marx si era ormai spento nel 1883, ha contribuito a deformare nel momento in cui ha ridotto e neutralizzato la carica rivoluzionaria insita nel pensiero critico marxiano (o marx-engelsiano) rinchiudendola nella gabbia di un sistema teoretico rigido, dogmatico e deterministico, così come è stato formulato nelle ultime opere engelsiane: Dialettica della natura (del 1883), L'origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato (del 1884) e Ludwig Feuerbach e il punto d'approdo della filosofia classica tedesca (del 1886).
    Modificato da lucio spartaco - 13/1/2010, 12:31

    lucio spartaco
    Inviato il: 13/1/2010, 12:55

    Sempre a proposito di violenza e di natura umana, non c’è dubbio che la paura sia un istinto naturale, insito nella natura animale degli uomini. La paura è un impulso congenito e primordiale, necessario all’autoconservazione della specie. Senza questo istinto gli esseri viventi non avrebbero alcuna possibilità di scampo di fronte alle insidie presenti nell’ambiente circostante. Ma proprio in quanto comportamento istintivo, la paura è un elemento irrazionale e primitivo che ha bisogno di essere regolato dall’intelligenza per evitare che prevalga, divenendo l’elemento determinante delle azioni umane.
    La paura può essere una forza devastante quando si fa strumento di lotta politica ed è usata per influenzare gli orientamenti delle masse che, prese dal panico, impazziscono, tramutandosi in furia cieca e incontenibile. Infatti, nulla è più impetuoso di una folla inferocita o terrorizzata, al pari di una mandria di bufali in fuga, assaliti dai predatori.
    Il panico può causare disastri come un cataclisma naturale, può essere catastrofico come un terremoto o un’eruzione vulcanica. Il “terrore” per antonomasia è costituito dalla rivoluzione, che è la madre delle paure collettive che affliggono le classi dominanti. La paura suscitata dalla minaccia di una “catastrofe sociale” che rischia di sovvertire l’ordine costituito e mette a repentaglio la sicurezza del proprio status di classi possidenti, è all’origine delle angosce che tormentano la società contemporanea. Ecco che risorge lo spettro della rivoluzione sociale, lo spauracchio della rivolta di massa.
    Da quando l’umanità ha creato le prime forme di proprietà privata accumulando il surplus economico originario, derivante dall’espropriazione del prodotto del lavoro collettivo, la paura più forte e ricorrente nella storia della lotta di classe nelle diverse società (dallo schiavismo antico al feudalesimo medievale, al capitalismo moderno) è la paura di perdere ciò che si possiede, il terrore di vedersi espropriare le ricchezze estorte ai produttori, siano essi schiavi, servi della gleba o salariati.
    Non è un caso che più si è ricchi più si ha paura e, probabilmente, si è più infelici in quanto tormentati dall’inquietudine. Da qui è sorta l’esigenza di istituire un potere forte e superiore, detentore del monopolio della violenza, ossia lo Stato, atto a garantire la sicurezza e l’ordine in una società retta sull’ingiustizia, sullo sfruttamento e sulla divisione in classi.
    La rivoluzione sociale è il più grande spauracchio dei governi e delle classi dominanti, in particolare dei governi e delle classi possidenti nelle società capitaliste ormai putrescenti, angosciate dall’assalto delle moltitudini dei proletari migranti, impaurite dalla rabbia e dall’ansia di riscatto dei popoli oppressi e delle classi più povere ed emarginate provenienti in misura crescente e inarrestabile dal Sud del mondo.
    Una paura molto attuale e diffusa negli Stati è la paura verso una società realmente democratica, libera ed egualitaria, che si estrinseca nella partecipazione concreta delle persone, per cui può divenire fonte di antagonismo sociale. La democrazia, non quella subìta passivamente, bensì vissuta attivamente, da protagonisti e non da sudditi o spettatori, il dissenso e il libero pensiero, la libertà intesa e praticata come critica e partecipazione diretta ai processi politici decisionali, tutto ciò incute un’angoscia profonda nell’animo di chi controlla e detiene il potere e la ricchezza sociale.
    Da tale paura scaturisce un’idiosincrasia anticomunista che tende a demonizzare le idee di libertà e i loro portatori fino alla criminalizzazione e alla repressione di ogni dissenso e ogni vertenza, recepiti come un’insidia che mina l’ordine costituito, a sua volta determinatosi in seguito a precedenti rivolgimenti sociali.
    Si rammenti che gli stati moderni e le società borghesi capitaliste hanno avuto origine da violente rivoluzioni sociali eseguite in gran parte dalle masse contadine e proletarie guidate dalle avanguardie illuminate e liberali della borghesia, che oggi teme di perdere il proprio potere e i propri privilegi di classe possidente.
    Il ruolo storico della borghesia, che un tempo era stato politicamente eversivo e rivoluzionario, determinando il rovesciamento violento dei regimi dispotici e assolutistici e delle aristocrazie feudali, con le loro sovrastrutture ideologiche oscurantiste di origine medievale, si è rapidamente trasformato in senso conservatore e misoneistico, rappresentando un ostacolo concreto alla realizzazione del progresso scientifico, culturale e sociale, all’esercizio pratico della democrazia diretta e partecipativa, al compimento di un effettivo processo di liberazione e di affrancamento del genere umano da ogni forma di barbarie e di violenza, di oppressione e di sfruttamento, di schiavitù e di paura.
    Modificato da lucio spartaco - 13/1/2010, 13:11

    Bogdanov
    Inviato il: 13/1/2010, 16:12

    “..l’integrità filosofica della concezione del mondo è quanto mai importante per comprendere con chiarezza il senso ed i fini della lotta sociale e per attuarvi con fermezza una coerente tattica di classe..” A.A.Bogdanov.
    Engels è una figura molto amata da tutti noi, ma il modo migliore per onorarlo credo sia lavorare nella direzione da lui indicata e non acconsentire alle sue debolezze filosofiche. Il marxismo sub specie engelsiana è stato un limite dal quale, nel tempo, si sono prodotti non pochi errori. La scuola filosofica di Plekanov, marxista per modo di dire ma in realtà neo-kantiana, accentuò non poco queste debolezze ed introdusse deformazioni ed errori propri.
    Lenin, che seguiva questo indirizzo, ad un certo punto avvertì queste debolezze, ed in un articolo (Tre fonti e tre parti integranti del marxismo) pensò ad una rifondazione del suo pensiero politico, ritentando una approfondita critica di Hegel, non potendosi accorgere di tendere ai risultati a cui Marx era già arrivato (molti scritti essenziali di Marx furono pubblicati solamente nel 1936 e lui non poteva conoscerli).
    Engels era un maestro del proletariato e tutto ciò che trasmette dal pensiero originale di Marx è stato una lezione fondamentale e di valore incalcolabile, ma vi è un limite nel suo pensiero.
    Ad esempio, per dirne una, stando a ciò che scrive, come fu possibile ad Hegel scoprire “nella sua maniera idealistica” esattamente il viceversa delle leggi di natura e della realtà intera? E resta insoluto il problema da dove mai cavò Hegel queste leggi il cui errore consiste nel fatto che “non sono ricavate dalla natura e dalla storia”.
    Nella sua “Dialettica della natura” e per molte pagine dell’”Antidűhring“ esamina l’intero campo delle scienze naturali, storiche e sociali e tentando di far rientrare ogni legge della fisica e della chimica, come ogni legge storica ed economica, nello schema prefissato di un materialismo dialettico ridotto a tre leggi (negazione della negazione, unità degli opposti, salto da quantità in qualità). Ciò che gli sfugge è il fatto di riportare il materialismo marxiano nella stessa ingiustificata metafisica dell’idealismo, di cui esso sarebbe formalmente l’immagine capovolta. Ne nasce una sorta di determinismo naturalistico di carattere positivistico e accade che ad Engels si possano muovere precisamente le stesse critiche che egli portava ad Hegel.
    Il testo richiamato dal compagno Eduardo (L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato) è un tentativo di fare entrare nello schema ‘’hegeliano alla rovescia’’ la storia umana, e perciò il compagno Eduardo scrive “necessario” riferendosi all’instaurazione dei domini di classe.
    Se così è, allora dovremmo concludere che le innumerevoli sconfitte delle classi oppresse che si ribellavano allo sfruttamento erano storicamente utili al progresso sociale. Ma non vi sembra di vedere, nello sfondo, l’Avvento del Messia Proletario?
    E per quale ragione l’evoluzione sociale degli uomini poteva avvenire solo calpestando le esistenze di milioni e milioni di esseri umani? perché nel dire “necessario” è questo che stiamo dicendo.
    O, per converso, perché Engels ritiene impossibile l’evoluzione delle prime società a comunismo primitivo?
    Se la natura predatoria e violenta dell’uomo si è trascinata fino ai nostri giorni senza controllo, ciò è dovuto al fatto che essa è l’essere ed agire delle classi dominanti, la quintessenza del dominio di classe. Il determinismo storico giustifica questo dominio, e con esso tutte le turpitudini e le crudeltà sopportate dagli esseri umani sottoposti a sfruttamento ed oppressione. Se accettiamo il determinismo storico, allora dovremmo giustificare anche la distruzione di civiltà, come quelle africane e pre-colombiane, come fatti necessari al “progresso” di quei popoli.
    Engels è affascinato dalla visione della grande industria e ritiene che essa poteva sorgere solo nelle condizioni dettate dall’egoismo feroce e disumano dei capitalisti e rilegge a ritroso tutta la storia umana a partire da questo.

    Eduardo20
    Inviato il: 13/1/2010, 18:38

    Cari compagni, mentre cercavo di preparare una risposta al compagno Bogdanov è arrivato il successivo intervento di Lucio. Credo che entrambi gli interventi siano importanti ed interessanti, ma trovo un certo disagio nel seguire ulteriormente questa discussione in cui ho l’impressione che i difensori di questa o quella tesi siano così convinti di quello che dicono, che lo danno per scontato, non trovando necessario argomentare adeguatamente ciò che dicono. Poiché penso sia importante per tutti capire quello che ogni altro afferma, dobbiamo fare tutti uno sforzo per stare con i piedi per terra e argomentare le affermazioni che facciamo, soprattutto quelle su cui si esprime una differenza di vedute. E mi spiego. Io ancora non ho capito, né da Bogdanov, né da Lucio, in cosa l’analisi che fa Engels nell’Origine della famiglia sarebbe sbagliata. In particolare confesso che la frase di Bogdanov in cui dice: “lo sviluppo dei mezzi di produzione è proscrittivo e non prescrittivo” mi è piuttosto oscura, anche se intuisco quello che vuole dire. Ancora si parla dei Maya come di una forma di comunismo primitivo giunto a forme di civiltà evolutissime, senza alcuna necessità di un vero regime di classe, che mi lascia perplesso perché mi risulta invece che fossero presenti forme di schiavismo. Ancora Lucio fa tutta una tirata su Engels che, “sotto la diretta influenza esercitata dalla cultura positivistica dominante in quegli anni”, avrebbe contribuito a deformare “la dialettica storica e naturale” nel momento in cui “ha ridotto e neutralizzato la carica rivoluzionaria insita nel pensiero critico marxiano (o marx-engelsiano) rinchiudendola nella gabbia di un sistema teoretico rigido, dogmatico e deterministico”. Non voglio dire naturalmente che i classici del marxismo siano intoccabili, per carità. Io stesso ho delle critiche da fare ad una serie di testi, a partire da Il Manifesto di Marx-Engels. L’arma della critica politica è una delle più potenti che ha in mano la classe operaia. Ma questa critica si deve appoggiare su degli argomenti e non su delle semplici affermazioni, anche perché andare avanti per affermazioni rende difficile agli altri compagni agganciarsi alla discussione, che è poi l’obiettivo principale di questo forum.
    Dall’insieme delle cose che percepisco, la visione della storia dell’umanità che emerge dagli interventi dei due compagni non si basa tanto sull’evoluzione della struttura economica della società quanto piuttosto su un carattere genetico, la presunta aggressività istintiva dell’uomo. Allora io mi chiedo: se è vero che l’umanità è piagata da questo gene dell’aggressività, perché mai dovrebbe questa stessa umanità arrivare al comunismo? Perché se il comunismo è invece solo il prodotto di una continua educazione di massa di una umanità comunque segnata da questa tendenza all’aggressività, credo che questo comunismo non avrebbe un grande futuro ed avrebbero giustamente ragione tutti i detrattori borghesi del comunismo a dire che, se la rivoluzione in Russia è fallita, ciò è dovuto al fatto che il comunismo è una chimera.
    Un caro saluto a tutti, Eduardo
    PS: ho letto l’ulteriore intervento di Bogdanov che non avevo notato e a cui risponderò più avanti.

    Bogdanov
    Inviato il: 14/1/2010, 00:07

    Credo che al compagno Eduardo sia sfuggito il senso di questa discussione; difatti giunge a due conclusioni una surrogativa e l’altra diametralmente opposta a quanto prospettato nell’intervento di Lucio ed anche nel mio.
    Abbiamo dato come accettato pienamente che la storia dell’umanità abbia camminato sull’evoluzione della struttura economica e cercavamo le motivazioni antropologiche che muovono le classi dominanti. Le due cose non sono affatto in opposizione, anzi. L’evoluzione delle strutture economiche non è argomento esaustivo per spiegare tutta e interamente la storia umana.
    Abbiamo affrontato la questione delle radici della violenza e, al di là delle ragioni contingenti, emerge che la storia naturale dell’uomo gioca ancora un ruolo importantissimo nel determinarne i comportamenti.
    Credo di poter dire anche per Lucio che il senso della discussione è questo: abbiamo bisogno del comunismo per continuare l’evoluzione sociale dell’uomo e possiamo farlo solo se abbiamo coscienza di ciò che siamo. (Grazie! Ndr)
    E’ sorta una terza questione che riguarda il modo di interpretare il materialismo storico, rispetto al quale emergono posizioni di Engels intrise di determinismo storico, almeno a parere mio e di Lucio, posizioni che porterebbero a legittimare intere ere di sfruttamento e di oppressione degli uomini.
    Non credo che nei testi di Marx e di Engels tutto è stato già detto, credo che bisogna continuare la ricerca nella direzione da loro indicata ma facendo i conti con quanto nel frattempo abbiamo appreso. (Certo, ma questo non autorizza a dire quel che s vuole…, Ndr)
    Se il compagno Eduardo avrà la bontà di rileggere la discussione alla luce di quanto ho sintetizzato potrà farsi un’idea più precisa dell’oggetto della discussione e porre quesiti sugli aspetti che gli sembrano controversi o farci conoscere il suo pensiero in proposito.
    Modificato da Bogdanov - 14/1/2010, 11:44

    lucio spartaco
    Inviato il: 14/1/2010, 12:31

    Concordo con la replica chiarificatrice del compagno Bogdanov, il quale ha interpretato correttamente il mio pensiero rispetto al comunismo inteso come approdo finale di un processo di evoluzione e di affrancamento sociale e culturale dell'umanità, nella misura in cui (cito testualmente le parole del compagno) "il comunismo è in grado di far nascere la condizione ideale per far regredire questa eredità di natura ed affermare la socialità dell’uomo. Da qui inizia la civiltà vera, l’evoluzione cosciente delle forme e delle relazioni sociali".
    E' altresì vero che (mi permetto di citare ancora il suddetto compagno) "L’internazionalismo proletario, il miglior antidoto contro guerra e razzismo, è il più potente veicolo di diffusione della solidarietà, di quella “fraternità” opposta allo spirito di predazione che è nel capitalismo".
    Ammetto di aver riscontrato una maggiore sintonia e condivisione con l'analisi suggerita e sviluppata dal compagno Bogdanov, non tanto in virtù di una presunta impostazione metodologica che si potrebbe definire "genetista", quanto perché l'approccio adottato dal compagno tende ad arricchire e completare in modo organico la visione dialettica e storico-materialistica del mondo, integrata efficacemente mediante il contributo prezioso di altre discipline scientifiche quali, ad esempio, l'etnologia, l'antropologia culturale, ecc. (scherziamo? Ndr)
    Per studiare e comprendere un problema così complesso, vasto e profondo come la natura e la storia umana, credo sia insufficiente affidarsi alle conoscenze derivanti dall'economia politica e all'indagine delle strutture economiche e sociali. Infatti, come afferma lo stesso Bogdanov, "L’evoluzione delle strutture economiche non è argomento esaustivo per spiegare tutta e interamente la storia umana".
    Naturalmente sono d'accordo con il compagno Eduardo, il quale esorta tutti noi ad argomentare e precisare meglio eventuali critiche come, ad esempio, quelle che il sottoscritto ha mosso (senza voler mancare di rispetto verso la figura e l'opera di un grande maestro del marxismo e della rivoluzione proletaria internazionale) in particolare rispetto all'influenza tardopositivistica risentita da Engels nell'ultima fase della sua produzione intellettuale e filosofica. Su questo punto mi riservo di ritornare in un prossimo intervento...

    lucio spartaco
    Inviato il: 16/1/2010, 14:24

    Come promesso, sebbene in leggero ritardo, intervengo per chiarire la tesi su Engels che avevo abbozzato in un precedente commento, pur sapendo che (cito testualmente le parole del compagno Bogdanov) "il modo migliore per onorarlo credo sia lavorare nella direzione da lui indicata e non acconsentire alle sue debolezze filosofiche".
    Comunque, visto che siamo in argomento, proverò a sviluppare la critica mossa nei confronti di Engels o, per dirla alla maniera del compagno Bogdanov, nei confronti del "marxismo sub specie engelsiana", a cui si ispirò ad esempio la frazione dei menscevichi russi, sedicenti "marxisti ortodossi" vicini al modo di pensare di Kautsky e guidati da uomini come Plechanov e Martov. In realtà, la scuola filosofica di Plekanov era "marxista per modo di dire" (cito sempre il compagno Bogdanov), ma seguiva un indirizzo neokantiano, e lo stesso Lenin, che inizialmente aveva aderito a queste posizioni teoriche, si accorse dei limiti e delle debolezze filosofiche e politiche di tale corrente.
    György Lukács, sulla scia di Rosa Luxemburg, sosteneva (non a torto) che in materia di marxismo l’ortodossia può riferirsi soltanto al metodo, vale a dire la dialettica, la critica e la prassi rivoluzionarie, ma non alla dottrina, altrimenti diverrebbe altro da sé.
    Cito un brano di György Lukács, tratto da “Storia e coscienza di classe”:
    “Il marxismo ortodosso non significa un “atto di fede” in questa o in quella tesi di Marx, e neppure l’esegesi di un libro “sacro”. Per ciò che concerne il marxismo, l’ortodossia si riferisce esclusivamente al metodo. Essa è la convinzione scientifica che nel marxismo dialettico si è scoperto il corretto metodo della ricerca, che questo metodo possa essere potenziato, sviluppato e approfondito soltanto nella direzione indicata dai suoi fondatori. [...] La dialettica materialistica è una dialettica rivoluzionaria. Questa determinazione è così importante e decisiva per comprendere la sua essenza che deve essere chiaramente afferrata prima ancora di poter trattare dello stesso metodo dialettico, per assumere un atteggiamento corretto verso il nostro problema. Si tratta del problema della teoria e della praxis.”
    Infatti, il marxismo costituisce una Weltanschauung, cioè una visione critica e unitaria del mondo, una sintesi dialettica tra teoria e prassi, una unità teorica e pratica formata dal materialismo storico e il materialismo dialettico, per cui sarebbe impossibile scindere le due concezioni, come sarebbe errato e fuorviante distinguere i risultati dell’opera di Marx da quelli di Engels, nella misura in cui essi strinsero un intimo sodalizio intellettuale che si concretizzò in un rapporto di stretta amicizia e collaborazione in termini di ricerche e lotte condivise, una collaborazione che si estrinsecò nella stesura di varie opere, a partire dalla “Sacra famiglia” (del 1844), "L'Ideologia tedesca" (del 1845) e il “Manifesto del partito comunista” (del 1848).
    Tuttavia, e qui veniamo al punto, è possibile considerare e valutare una produzione intellettuale di “Engels senza Marx”, nella misura in cui esiste una parte della produzione bibliografica di Engels risalente al periodo successivo alla morte del suo grande amico Marx, avvenuta nel 1883. In questa ultima fase della sua vita, il grande maestro del proletariato e della rivoluzione mondiale rischiò di smarrirsi in una sorta di "materialismo volgare" e di “determinismo” filosofico e scientifico di derivazione tardopositivistica, che influenzarono profondamente il pensiero di Engels, come si evince dalla lettura delle sue ultime opere, in particolare “Dialettica della natura” (del 1883), "L'origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato" (del 1884), "Ludwig Feuerbach e il punto d'approdo della filosofia classica tedesca" (del 1886).
    Non è un caso che tra i maggiori fautori del pensiero di “Engels senza Marx”, cioè del "materialismo volgare" e “deterministico”, figuri l’organizzazione di Lotta comunista. Questo gruppo politico, malgrado risulti il partito extraparlamentare meglio radicato in Italia, soprattutto a Genova, Milano e Torino, con circoli presenti persino all'estero, in particolare a Parigi, Nizza e recentemente anche a Valencia, è una banda di pazzi stalinisti travestiti da "trozkisti", che si sono letteralmente fermati al 1917...
    Modificato da lucio spartaco - 16/1/2010, 17:13

    Bogdanov
    Inviato il: 16/1/2010, 20:00

    Rispondo alla critica mossa dal compagno Eduardo.
    Parlare di Engels è parlare di un titano della lotta proletaria nei confronti del quale abbiamo un debito inestinguibile. Engels rappresentò non soltanto il comprimario teorico di Marx, ma anche la continuità del marxismo da Marx fino ai grandi partiti operai che sorsero dal marxismo anche per il suo diretto impulso. Se ne discutiamo è perché ne accettiamo in pieno l’eredità morale e politica ed anche gran parte di quella teorica. Chi conosce a fondo il personaggio può ben comprendere che egli stesso si sarebbe compiaciuto anche di questa modestissima discussione e della nostra umile fatica di comprendere. Ma se giudico Engels un compagno allora interviene il mio diritto alla polemica, ad esprimere dissenso per alcune formulazioni filosofiche sulle quali non posso acconsentire.
    Per uno strano gioco di prospettiva, rispetto ad un criterio di successione teorica sembra che sia Marx l’ultimo della serie dei teorici marxisti, anche se Marx stesso diceva di non essere marxista, e vedremo perché.
    Marx non si preoccupò di contestare, da filosofo, le filosofie che aveva criticate, e dopo sommari appunti o lunghe polemiche dal lui neppure pubblicati (Tesi, Manoscritti, Ideologia tedesca) non pensò mai di riprendere un lavoro di sistemazione generale del suo pensiero nei confronti delle filosofie passate o di quelle che sarebbero state formulate dopo di lui. Ruppe violentemente con la filosofia tradizionale negando ad essa addirittura il diritto alla continuazione sotto qualsiasi forma che non fosse un metodo di lavoro sul piano delle scienze particolari, e quindi immediatamente pratiche. Perciò non si definiva marxista.
    Engels, viceversa, ritenne necessario questo lavoro ed in tutta la sua opera si trovano gli accenni ad un suo bisogno di “fare i conti” della “concezione marxista del mondo”.
    Nel Ludovico Fuererbach contesta ad Hegel che il concetto di assoluto che possa esistere a priori e fin “dalla eternità, non si sa dove, ma ad ogni modo indipendentemente da ogni cervello umano pensante” e che possa compiere una “evoluzione dialettica” estrinsecandosi nella natura per assumere di nuovo coscienza di sé nell’uomo, ritornando infine, con un giro vizioso, al punto da cui era partito.
    Si trattava, spiega Engels per chiarire come il marxismo trasse origine dall’hegelismo e poi se ne distaccò, di rovesciare la concezione hegeliana che non poteva fondarsi su alcuna giustificazione se non metafisica e di concepire “di nuovo i concetti del nostro cervello in modo materialistico”.
    Ma come avviene e quali conseguenze comporta questo raddrizzamento della dialettica hegeliana?
    “Le leggi della dialettica vengono dunque ricavate per astrazione tanto dalla storia della natura, come da quelle della società umana.” (Dialettica della natura).
    Queste “leggi generali si riducono fondamentalmente a tre: la legge della conversione della quantità in qualità e viceversa, la legge della compenetrazione degli opposti, la legge della negazione della negazione. Ma ”tutte e tre sono state sviluppate da Hegel, nella sua maniera idealistica, come leggi del pensiero”. “L’errore consiste in ciò: che queste leggi non sono state ricavate dalla natura e dalla storia ma sono ad essa elargite dall’alto, come leggi del pensiero”.
    “Se noi capovolgiamo la cosa – continua Engels – tutto diviene semplice: le leggi della dialettica divengono subito semplici e chiare…”: “Si può quindi dimostrare che le leggi dialettiche sono leggi reali dell’evoluzione della natura e che quindi sono valide anche per la ricerca scientifica e teorica”.(Dialettica della natura).
    Ma come mai Engels non si chiede come fu possibile ad Hegel scoprire “nella sua maniera idealistica” esattamente in viceversa delle leggi della natura e della realtà intera? E da dove cavò Hegel queste leggi il cui errore consiste nel fatto che “non sono ricavate dalla natura e dalla storia”? E come è stato possibile che una filosofia che non fu altro che “il prodotto di un determinato grado di sviluppo del pensiero umano” possa avere scoperte, benché a rovescio, le leggi obiettive della natura e della storia in generale?
    Prendendo alla lettera il concetto marxiano della necessità di rimettere sui piedi la dialettica hegeliana, per capovolgerne la direzione passiva in attiva, Engels credette sufficiente sostituire al processo dell’idea assoluta quello della natura e della storia. Ma come sia “vero” il materialismo dialettico nei confronti dell’idealismo non si spiega, in quanto la contestazione del secondo è data soltanto dalla sua in giustificazione metafisica.
    Ma esiste la prova della “verità” del materialismo? Engels cerca prove presso le scienze naturali e la storiografia, senza comprendere che l’eventuale dimostrazione della “verità” obiettiva dei risultati di esse è compito proprio della filosofia. In realtà Engels non può uscire dal cerchio in cui si è posto, perché non gli è possibile superare teoreticamente l’idealismo adottando le sue stesse categorie. Engels insiste sulla verità obiettiva della dialettica, per ancorare senza possibilità di fuga alla realtà concreta il suo metodo non avvedendosi che esso è ancora fissato sullo stesso campo categoriale dell’idealismo.
    Ne nasce una sorta di determinismo naturalistico, poi esteso alla stessa storiografia, di carattere positivistico che si ingessa ben presto in una disposizione sistematica.
    Ogni filosofia si basa su un postulato di partenza non dimostrabile in sede filosofica ma in sede pratica, come base di una costruzione di cui la stessa filosofia è una parte, per quanto specifica, di orientamento, di lavoro e di controllo. Ed è ciò che aveva compreso Marx quando affermava che non si trattava più di interpretare il mondo, ma di mutarlo, con ciò decidendo per la rinuncia del pensiero alla conoscenza astratta e per l’affermazione e la verifica della sua verità pratica.
    Questa impostazione di Engels avrà un ridondanza negativa nella squalificata scuola filosofica di Plekanov, un guazzabuglio di neo-kantismo, spinozismo ed altro esposto con un linguaggio marxista, ed il determinismo storico sarà la filosofia del menscevismo, che affermava che il proletariato russo non dovesse fare la rivoluzione perché non si era ancora affermata la fase borghese. Fu il più illustre seguace di questa scuola, Lenin, a mostrare il contrario, non sui libri ma marxianamente, nel corso della rivoluzione.

    osvaldo4s
    Inviato il: 17/1/2010, 20:55

    Non penso di poter affrontare, per mia ignoranza e per la complessità dell'argomento, rispetto anche alle nutrite citazioni riportate, tutti gli aspetti sulla natura umana descritti e discussi dai compagni, ed in particolare dal compagno Bogdanof. Tuttavia, vorrei espimere comunque dei miei punti di vista su questo argomento a partire proprio dal passaggio del compagno Bogdanof: "In seguito l'uomo divenne animale di savana. Il passaggio è cruciale, perché nella savana non trovava cibo sufficiente e dovette modificare il suo registro alimentare, adattandosi a digerire proteine della carne di altri animali. La selezione naturale favorì quegli individui che avevano l'istinto aggressivo più forte, più capaci di uccidere e nutrirsi meglio, ed, evolutivamente parlando, emerse l'uomo come predatore, il tipo umano che si è trasmesso fino a noi. Le consociazioni umane nacquero per aggredire insieme animali più grossi e le gerarchie umane cominciarono a formarsi in base alla ferocia individuale". Le mie sottolineature indicano frasi che non mi sono chiare: istinto aggressivo, uomo predatore il tipo d’uomo che si è trasmesso fino a noi (quasi geneticamente determinato) ecc. A questo punto una prima domanda che mi viene da fare è come mai attualmente sono arrivati a noi uomini dall’istinto, diciamo, non predatore? Come hanno fatto quest'ultimi a sopravvivere in un mondo di lupi per centinaia di migliaia di anni? Secondo una selezione sostenuta dal darwinismo sociale dovremmo essere tutti predatori! E non è così o mi sbaglio? Se mi sbaglio il tutto lascia intendere – semplificando - che l’umanità è da molto tempo divisa in buoni e cioè quelli dall’istinto non predatorio, e cattivi cioè quelli dall’istinto predatorio. E quindi ritorneremmo alla vecchia solfa religiosa – e tutto può essere a questo punto – della lotta del bene contro il male – dio contro il diavolo ecc. Quindi per avere la speranza di un mondo migliore dovremmo promuovere una lotta di buoni contro i cattivi e magari guadagnarcelo, questo mondo, non in terra. Io, invece, penso che non esista un istinto predatorio o non predatorio nell’uomo giunto fino a noi ma un istinto sociale che non è sinonimo né di essere predatore né di non esserlo, nè di cattiveria nè di bontà. Semplificando all’osso la questione, se l’uomo è costretto per necessità a divorare se stesso, in alcune circostanze di vita e se dovesse essere l’unica strada per la sopravvivenza riesce anche a farlo, e le prove storiche abbondano (anche di storia recente). Oppure non lo fa se ha una certa abbondanza per vivere. Diventa rapace ed aggressivo se ne è costretto, altrimenti, come direbbe Totò, desiste. E per finire vorrei porre quest’altra domanda sull’istinto predatorio dell’uomo arrivato fino a noi. Che cosa spinge una persona a rischiare - d’istinto - la propria vita – per salvarne un’altra che nemmeno conosce? E che cosa spinge magari la stessa persona in una condizione diversa, dove può “ragionare” magari "aiutato" da una classe sociale dominante a massacrare un suo simile per esempio in guerra? E non mi riferisco necessariamente ad elementi appartenenti al proletariato. Un saluto fraterno.

    Bogdanov
    Inviato il: 18/1/2010, 01:15

    Vorrei tranquillizzare i compagni: non stiamo trasformando questo forum in un’accademia di filosofia, ma la questione originaria posta da Lucio sulla violenza ha una sua tragica attualità.
    La violenza è stato il contenuto di fondo di tutte le società classiste: per il capitalismo è un valore operativo, l’anima di ciò che esso è, il suo modo di interpretare il suo rapporto con la restante umanità. Proprio perciò il punto di vista proletario non può essere limitato perché esso si oppone a tutto ciò che è stata la storia precedente, ha bisogno di sottoporre alla sua critica tutto ciò che questa storia ha prodotto, compresa la concezione dell’uomo così come esso è emerso dalla natura.
    Il compagno Osvaldo scrive di non condividere questa mia affermazione:
    "La selezione naturale favorì quegli individui che avevano l'istinto aggressivo più forte, più capaci di uccidere e nutrirsi meglio, ed, evolutivamente parlando, emerse l'uomo come predatore, il tipo umano che si è trasmesso fino a noi. Le consociazioni umane nacquero per aggredire insieme animali più grossi e le gerarchie umane cominciarono a formarsi in base alla ferocia individuale".
    Scrivevo, proprio in contestazione col darwinismo sociale e con l’interpretazione dell’evoluzione biologica da parte delle scuole neo-darwiniste (il compagno Osvaldo mi perdoni l’autocitazione):
    “A differenza delle api, la cui esistenza è dominata dall’altruismo e dal solidarismo, l’uomo non ha ancora superato la fase critica della sua evoluzione psicosociale, portando a conclusione la trasformazione in cooperazione della sua primordiale competizione, sia con le altre forze vive della natura, sia con gli altri uomini con i quali convive. Finché ciò non avviene, cioè finché non saranno superate forme sociali e culture che contengono in sé ancora questa contraddizione, la società degli uomini è costantemente in bilico tra progresso e distruzione. Il compimento della nostra storia di specie richiede di favorire l’ulteriore sviluppo della nostra socialità, ma le forme sociali ed i sistemi culturali che propugnano individualismo, competizione e lotta, ostacolano questo lavoro, sebbene sia proprio la società degli uomini a rappresentare la forma più complessa e sviluppata di cooperazione.”
    Ho poggiato questi concetti non su mie generiche affermazioni, ma su ciò che abbiamo appreso dalla biologia, sostenendo è mostrando che il contenuto dell’evoluzione biologica è fondamentalmente di tipo cooperativo e che solo piccola parte, molto piccola, di tipo competitivo. (se lo ritiene, il compagno Osvaldo può chiedermi la parte del lavoro in cui è dimostrata questa affermazione).
    Ora la storia naturale dell’uomo è stata ricostruita con sufficiente precisione basandosi su due fatti:
    i reperti paleontologici e l’attuale struttura del corpo umano. Una domanda che interessò molto l’antropologia strutturale riguardava il fatto che l’uomo, da specie vegetariana, acquisì le proteasi, cioè enzimi in grado di permettergli di digerire carne. Carel van Schaik ha recentemente dimostrato e documentato un processo analogo tra i babbuini di Sumatra in relazione al fatto che mutazioni climatiche epocali hanno selezionato tra i babbuini quegli individui in grado di nutrirsi di carne. Non si tratta di opinioni ma di risultati e di dati prodotti da qualche milione di anni di selezione naturale nella quale gli individui in grado di nutrirsi meglio avevano prevalenza riproduttiva su quelli meno dotati, e quindi trasmettevano i loro geni alla prole; questi geni si rafforzavano ad ogni passaggio generazionale. Per prevalere nella competizione riproduttiva occorreva: disporre di proteasi più efficienti e avere maggiore abilità nell’uccidere altri animali o altri umani (dato che in quel tempo era praticato ancora il cannibalismo).
    Il compagno Osvaldo chiede ancora:
    Che cosa spinge una persona a rischiare - d’istinto - la propria vita – per salvarne un’altra che nemmeno conosce? E che cosa spinge magari la stessa persona in una condizione diversa, dove può “ragionare” magari "aiutato" da una classe sociale dominante a massacrare un suo simile per esempio in guerra? E non mi riferisco necessariamente ad elementi appartenenti al proletariato.
    Non ho affatto sostenuto che l’uomo sia un essere antisociale: sostengo invece che esiste una contraddizione tra la socialità dell’uomo e la sua matrice primordiale aggressiva e competitiva. Ho sostenuto che questa contraddizione si è trascinata fino nel nostro tempo perché continuamente esaltata e coltivata dai sistemi sociali classisti; ho sostenuto e sostengo che la cultura borghese è portatrice di questa contraddizione e che essa può essere posta sotto il controllo della ragione solo e soltanto in un ambiente socio-culturale di tipo comunista in quanto nell’ambiente borghese la competizione, l’aggressività, lo spirito di predazione ricevono continuamente stimoli.
    E’ la stessa formulazione della domanda del compagno Osvaldo che rileva l’intima profondità di questa contraddizione. Osvaldo dice “ragionare”, “magari aiutato”, ma volgendo l’esempio in positivo , “ragione” è il superamento della pulsione istintuale, in questo caso, e “aiuto” è proprio la forma cooperativa in grado di sostenere e rafforzare questa “ragione”.
    Tentavo di comprendere come funziona l’unica istituzione che in tutta la storia umana ha continuato a funzionare sempre con le stesse regole: l’esercito.
    Due valentissimi entomologi, Lèonard e Darchen hanno compiuto diversi tentativi per saggiare la resistenza dell’istinto sociale delle api. Somministrando loro droghe psicotrope, che provocano l’esplosione di istinti aggressivi nell’uomo ed in altre specie di vertebrati, nonché negli artropodi, hanno osservato che nelle api viene invece esaltato proprio l’istinto sociale, provocando la costruzione di celle reali da sette a otto volte più numerose di quelle costruite da api non drogate.
    Ora, perché queste sostanze hanno effetti psichici diametralmente opposti in specie i cui meccanismi neuronali sono del tutto identici? Specie biologicamente simili alle api reagiscono in modo diametralmente opposto al modo di reagire delle api, cioè allo stesso modo di come reagisce l’uomo.
    Gli effetti indotti dal condizionamento psicologico che subisce un soldato non basterebbero a farne un macellaio dei suoi simili; con le api non vi riescono neppure i potentissimi psicotropi ed il loro istinto aggressivo si esplica solo a protezione della prole; ma nell’uomo c’è un substrato genetico, la traccia pesante di ciò che l’uomo è stato in natura ed è su questo che opera il condizionamento psicologico.
    Ma c’è un risvolto: le classi oppresse, nella storia, hanno continuamente cercato di liberarsi delle classi dominanti e lo hanno sempre fatto postulando elementi di comunismo primitivo. Noi stessi aspiriamo alla forma più completa e più compiuta di cooperazione tra tutti gli esseri umani, al di là del capitalismo, respingiamo l’individualismo come un anti-valore, postuliamo il massimo di solidarietà tra i proletari del mondo. Inconsapevolmente lottiamo contro l’eredità di natura in nome della socialità, consideriamo “bestiali” comportamenti violenti ed egoistici e consideriamo civili ed evoluti comportamenti impregnati di socialità e di solidarietà. (riflettiamo su questo aggettivo, “bestiale”).
    Dunque l’eredità di natura non è un destino immutabile, possiamo opporci ad essa portando al massimo grado possibile l’interazione positiva tra gli uomini, ma possiamo farlo solo consapevolmente, sapendo contro che cosa stiamo lottando, cioè contro un sistema sociale che ne esalta gli aspetti peggiori e del quale sono proprio questi aspetti l’anima.

    Bogdanov
    Inviato il: 18/1/2010, 01:57

    "Non penso di poter affrontare, per mia ignoranza e per la complessità dell'argomento, rispetto anche alle nutrite citazioni riportate, tutti gli aspetti sulla natura umana descritti e discussi dai compagni, ed in particolare dal compagno Bogdanov." scrive il compagno Osvaldo.
    Il compagno da cui ho preso a prestito lo pseudonimo, A. A. Bogdanov, nel corso di una durissima polemica di gnoseroseologia (teoria della conoscenza) scriveva:
    "..qualsiasi uomo di vasta cultura e di ricca esperienza è assai meglio preparato all'attività filosofica che non un polveroso specialista di gnoseologia. Deriva a quì, più che da qualsiasi altro campo, l'incontestabile diritto del "profano", fornito di sufficiente esperienza di vita e di scienza, di avere la propria opinione nella lotta tra le tendenze filosofiche."
    Stiamo discutendo tra compagni, riversando in questa discussione il portato delle nostre esperienze e dei nostri ragionamenti. Le citazioni a volte aiutano a chiarire un concetto, un pensiero, ma non sono l'essenziale.
    Ci confrontiamo per imparare insieme, attuando una forma cooperativa di conoscenza, interagendo nella ricerca di una posizione il più possibile vicina alla verità, il più possibile utilizzabile nella lotta politica; ogni opinione è non soltanto necessaria ma utilissima alla composizione del nostro comune risultato di questa discussione.
    Modificato da Bogdanov - 18/1/2010, 10:23

    Eduardo20
    Inviato il: 21/1/2010, 15:20

    Cari compagni, voglio tornare sul tema della violenza per cercare di fornire degli elementi di chiarimento del mio pensiero. Allo scopo provo a fare un breve riepilogo di quelli che a me sembrano i punti salienti per cercare di aiutare la discussione. Parto dalle affermazioni del compagno Lucio, che a me sembravano perfette:
    “In effetti, è alquanto difficile determinare e concepire la violenza come un comportamento etologico ed istintivo, naturale ed immutabile, dell’essere umano, poiché è la natura stessa della società il vero principio che genera i criminali, i violenti in quanto singoli individui, che sono spesso i soggetti più vulnerabili sul piano emotivo, che finiscono per essere il "capro espiatorio" su cui si scaricano tutte le tensioni, le frustrazioni e le conflittualità latenti, insite nell'ordinamento sociale vigente.” (post del 27/12/2009)
    ma che vengono messe in discussione dal compagno Bogdanov secondo il quale "homo homini lupus", cioè esisterebbe un istinto geneticamente impresso nell'umanità che porterebbe alla competizione e all'aggressione reciproca. A questo avevo risposto dicendo di non condividere l’idea di una natura istintivamente aggressiva dell’umanità e avevo ulteriormente obiettato che l’uso di questo argomento all’interno della discussione stava spostando l’interpretazione della storia dell’umanità su una base sovrastrutturale (l’egoismo, la violenza innata, ...) perdendo di vista le sue basi materiali.
    Infatti, anche se il compagno Bogdanov afferma che:
    “Abbiamo dato come accettato pienamente che la storia dell’umanità abbia camminato sull’evoluzione della struttura economica e cercavamo le motivazioni antropologiche che muovono le classi dominanti. Le due cose non sono affatto in opposizione, anzi. L’evoluzione delle strutture economiche non è argomento esaustivo per spiegare tutta e interamente la storia umana.” (post del 14/01/2010)
    di fatto in tutti i suoi interventi c’è un’attenzione praticamente esclusiva sull’aspetto “sovrastrutturale”:
    “Ed è questo, l'essere ed agire del predatore di savana, che si è riproposto in tutte le società classiste, ed è in nome di esso che, con lo sviluppo dei mezzi di produzione, l'organizzazione sociale veniva modificata, o riedificata, avendo questo istinto come principio informatore.” (idem)
    Anzi, in un suo post il compagno sembra addirittura motivare l’origine della divisione in classi con questo gene dell’aggressività:
    “La selezione naturale favorì quegli individui che avevano l'istinto aggressivo più forte, più capaci di uccidere e di nutrirsi meglio, ed, evolutivamente parlando, emerse l'uomo come predatore, il tipo umano che si è trasmesso fino a noi. Le consociazioni umane nacquero per aggredire insieme animali più grossi e le gerarchie umane cominciarono a formarsi in base alla ferocia individuale.” (post dell’11/01/2010, sottolineatura mia).
    Ancora il compagno parla di questo “istinto predatorio” come di un elemento che è alla base di tutte le contraddizioni della storia:
    “La società degli uomini contiene una contraddizione, la madre di tutte le contraddizioni sociali, cioè il conflitto tra la cooperazione, indispensabile per assicurare livelli di sopravvivenza, e la competizione, eredità dell’istinto predatorio.” (01/01/2010).
    che ancora una volta sembra disegnare la storia sulla base di un conflitto cooperazione/competizione, privo e avulso da ogni base materiale nel contesto strutturale della società.
    C’è poi un aspetto che avevo sollevato in un mio precedente intervento ma su cui non c’è stata risposta. Criticando questo passaggio del compagno Bogdanov:
    “L’evoluzione psicosociale è il contenuto della civiltà, un contenuto che, proprio perché acquisito, dobbiamo ricostruire da capo in ogni nuovo individuo che nasce. Il suo significato consiste in un condizionamento culturale e sociale che svalorizza l’aggressività e l’egoismo e crea l’idoneità dell’individuo alla vita sociale. Possiamo immaginarlo come un rivestimento della matrice istintuale, facile a lacerarsi quando le “circostanze” (forme culturali, stati di emergenza, sistemi sociali, ecc.) risospingono l’individuo verso l’egoismo. Il comunismo, lo dico di passata, proprio perché demotiva l’egoismo sociale, è la condizione più stabile a cui si possa pensare per assicurare l’ulteriore sviluppo dell’evoluzione psicosociale degli uomini.” (idem)
    constatavo che, se il comunismo è invece solo il prodotto di una continua educazione di massa di una umanità comunque segnata da questa tendenza all’aggressività, questo comunismo non avrà un grande futuro ed avranno giustamente ragione tutti i detrattori borghesi del comunismo a dire che, se la rivoluzione in Russia è fallita, ciò è dovuto al fatto che il comunismo è una chimera. Mi chiedo ancora - facendo mie le domande che si poneva il compagno Osvaldo - quando parliamo di atti di solidarietà che avvengono all’interno della classe operaia o anche al di fuori di un contesto di classe, questi sono dovuti ad un “condizionamento culturale e sociale” che reprimerebbe la nostra aggressività interna o sono l’espressione spontanea, non artefatta, di una specie umana che non è né buona né cattiva, che è quello che è e che evolve in funzione delle condizioni materiali in cui vive? D’altra parte trovo contraddittoria l’impostazione del compagno quando dice che “il comunismo demotiverebbe l’egoismo sociale”. Infatti il comunismo demotiva giustamente ogni egoismo sociale proprio perché rappresenta la società in cui sarà possibile il pieno sviluppo delle forze produttive e il soddisfacimento di tutti i bisogni, e non certo perché è la società dell’indottrinamento forzato!
    In questo mio intervento volutamente non rispondo a tutti gli elementi di critica sviluppati sull’opera di Engels dopo la morte di Marx per il semplice motivo che questi non rispondono alle questioni poste. Io avevo semplicemente citato il testo L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato, che mi sembrava adeguato a dare una risposta alle questioni poste in questo forum. Pur ammettendo - ma io non lo credo - che la produzione di Engels di questo periodo sia stata così profondamente marcata di neopositivismo, questo non significa che tutti i suoi scritti siano da buttare via e se non si è d’accordo con un’opera, penso che occorra giustificare nel merito il proprio disaccordo. Per quanto mi riguarda, l’impostazione che dà Engels nell’“Origine della famiglia …”, nella parte in cui cerca di dare una spiegazione alla formazione della società divisa in classi, mi sembra molto convincente. Purtroppo non posso riportare tutto il testo, che però è facilmente scaricabile da www.resistenze.org/sito/ma/di/ce/mdce5n29.htm. Se si va a leggere il capitolo IX Barbarie e Civiltà, anche solo le prime 2000 parole, si può seguire tutta la ricostruzione che Engels fa dell’evoluzione dell’umanità dal comunismo primitivo alle prime società schiaviste.
    Se si legge attentamente Engels, si vede che il suo è un tentativo di lettura della storia dell’umanità sulla base della quale si riesce a dare una spiegazione del perché siamo arrivati oggi a questa società. Non c’è nessun giustificazionismo storico agli orrori delle varie società divise in classi, come assurdamente suggerisce il compagno Bogdanov:
    “Il determinismo storico giustifica questo dominio, e con esso tutte le turpitudini e le crudeltà sopportate dagli esseri umani sottoposti a sfruttamento ed oppressione. Se accettiamo il determinismo storico, allora dovremmo giustificare anche la distruzione di civiltà, come quelle africane e pre-colombiane, come fatti necessari al “progresso” di quei popoli.” (post del 13/01/2010).”
    D’altra parte chiedo al compagno Bogdanov, se gli argomenti di Engels ti sono sembrati deterministi, non ti pare che lo stesso Marx sia lui stesso alquanto determinista? Leggiamo dall’opera di Marx ed Engels, l’Ideologia tedesca, questi passaggi:
    “Esattamente all’opposto di quanto accade nella filosofia tedesca, che discende dal cielo sulla terra, qui si sale dalla terra al cielo. Cioè non si parte da ciò che gli uomini dicono, si immaginano, si rappresentano, né da ciò che si dice, si pensa, si immagina, si rappresenta che siano, per arrivare da qui agli uomini vivi; ma si parte dagli uomini realmente operanti e sulla base del processo reale della loro vita si spiega anche lo sviluppo dei riflessi e degli echi ideologici di questo processo di vita. (...) Di conseguenza la morale, la religione, la metafisica e ogni altra forma ideologica, e le forme di coscienza che ad esse corrispondono, non conservano oltre la parvenza dell’autonomia. (...) Non è la coscienza che determina la vita, ma la vita che determina la coscienza.”
    “Naturalmente non ci daremo la pena d’illuminare i nostri sapienti filosofi sul fatto (...) che la schiavitù non si può abolire senza la macchina a vapore e la Mule-Jenny, né la servitù della gleba senza un’agricoltura migliorata, che in generale non si possono liberare gli uomini finché essi non sono in grado di procurarsi cibo e bevanda, abitazione e vestiario in qualità e quantità completa. La “liberazione” è un atto storico, non un atto ideale, ed è attuata da condizioni storiche, dallo stato dell’industria, dal commercio, dall’agricoltura, delle relazioni ...”.
    In conclusione io penso che quello che è in discussione è l’approccio materialistico storico e dialettico allo studio della storia dell’umanità, approccio che ci permette di comprendere che dei processi nella storia non avvengono quando questo o quel soggetto sociale lo desidera, ma quando materialmente sono date le condizioni oggettive perché quella transizione sia possibile. A questo, naturalmente si deve sempre combinare il fattore soggettivo, cioè l’insorgenza del soggetto sociale che si fa portatore del processo. Da questo punto di vista mi sorge un dubbio nella lettura del passaggio che segue:
    “il determinismo storico sarà la filosofia del menscevismo, che affermava che il proletariato russo non dovesse fare la rivoluzione perché non si era ancora affermata la fase borghese. Fu il più illustre seguace di questa scuola, Lenin, a mostrare il contrario, non sui libri ma marxianamente, nel corso della rivoluzione.”
    dove, a parte la giusta distinzione politica dal menscevismo, mi sorge il dubbio sulla natura della critica. Certamente i menscevichi hanno sbagliato a valutare l’epoca storica ed hanno affermato che la rivoluzione proletaria era immatura in Russia perché occorreva prima introdurre il capitalismo. L’errore dei menscevichi era legato al fatto che essi guardavano alla sola Russia e non al mondo intero. Ma, ciò detto, è vero che la rivoluzione proletaria non è possibile in qualunque momento della storia e che si è resa possibile e attuale solo a partire dalla fase di decadenza del capitalismo, che possiamo simbolicamente far corrispondere con lo scoppio della prima guerra mondiale. La Comune di Parigi viceversa, benché sia stato un episodio luminosissimo di lotta della classe operaia e di conseguenza ricco di lezioni politiche per il proletariato, era chiaramente votata al fallimento perché le condizioni in cui si produceva erano oggettivamente e soggettivamente immature.
    Sperando di non avervi troppo tediato, un caro saluto a tutti, Eduardo

    Bogdanov
    Inviato il: 21/1/2010, 22:36

    Una breve risposta al Compagno Eduardo non posso darla e neppure mi interessa. Credo che falsificare e deformare il pensiero di un interlocutore, introdurre forzature, fare affermazioni patentemente false e fingere di polemizzare con affermazioni artatamente prodotte ed attribuite all'intelocutore non porti molto lontano. E' il vecchio metodo dei domenicani.
    Alcuni esempi: (ho rimarcato le forzature falsificanti)
    1) di fatto in tutti i suoi interventi c’è un’attenzione praticamente esclusiva sull’aspetto “sovrastrutturale” (ma di che stavamo parlando? di rape? esclusiva se l'è inventato lui)
    2) Ancora il compagno parla di questo “istinto predatorio” come di un elemento che è alla base di tutte le contraddizioni della storia (il tutte è un suo omaggio)
    3) che ancora una volta sembra disegnare la storia sulla base di un conflitto cooperazione/competizione, privo e avulso da ogni base materiale nel contesto strutturale della società. (altra perla di falsificazione)
    4) constatavo che, se il comunismo è invece solo il prodotto di una continua educazione di massa (il solo è suo)
    5) forze produttive e il soddisfacimento di tutti i bisogni, e non certo perché è la società dell’indottrinamento forzato! (questa è quasi una diffamazione - trovate nel mio scritto sia pure un accenno all'indottrinamento forzato, per giunta)
    6) Engels di questo periodo sia stata così profondamente marcata di neopositivismo, questo non significa che tutti i suoi scritti siano da buttare via (questa è una vera e propria falsificazione - confrontate con quanto ho invece scritto)
    6b) (poi dice ancora) se non si è d’accordo con un’opera, penso che occorra giustificare nel merito il proprio disaccordo. (finge di non avere letto ciò che ho scritto a proposito per fare apparire le critiche gratuite - leggete ciò che ho scritto e giudicate voi stessi))
    7) Non c’è nessun giustificazionismo storico agli orrori delle varie società divise in classi, come assurdamente suggerisce il compagno Bogdanov ( "assurdamente" è un insulto gratuito da parte del compagno Eduardo il quale, in un altro intervento quì, scrive "necessario sopravvento di classe" - ma "necessario" non è forse giustificatorio?)
    8) Ma, ciò detto, è vero che la rivoluzione proletaria non è possibile in qualunque momento della storia e che si è resa possibile e attuale solo a partire dalla fase di decadenza del capitalismo (per favore, cercate in ciò che ho scritto dove è affermato che la rivoluzione è sempre possibile - la frase è subdola e vorrebbe indurre il lettore a credere che sia stato io a dire il contrario).
    Ce ne sarebbero molte di più, ivi inclusa la generalizzazione di una citazione di Marx usata a sproposito, ma basta così.
    Modificato da Bogdanov - 22/1/2010, 02:31

    Bogdanov
    Inviato il: 21/1/2010, 22:36

    Una breve risposta al Compagno Eduardo non posso darla e neppure mi interessa.
    Credo che falsificare e deformare il pensiero di un interlocutore, introdurre forzature, fare affermazioni patentemente false e fingere di polemizzare con affermazioni artatamente prodotte ed attribuite all'intelocutore non porti molto lontano. E' il vecchio metodo dei domenicani.
    Alcuni esempi: (ho rimarcato le forzature falsificanti)
    1) di fatto in tutti i suoi interventi c’è un’attenzione praticamente esclusiva sull’aspetto “sovrastrutturale” (ma di che stavamo parlando? di rape? esclusiva se l'è inventato lui)
    2) Ancora il compagno parla di questo “istinto predatorio” come di un elemento che è alla base di tutte le contraddizioni della storia (il tutte è un suo omaggio)
    3) che ancora una volta sembra disegnare la storia sulla base di un conflitto cooperazione/competizione, privo e avulso da ogni base materiale nel contesto strutturale della società. (altra perla di falsificazione)
    4) constatavo che, se il comunismo è invece solo il prodotto di una continua educazione di massa (il solo è suo)
    5) forze produttive e il soddisfacimento di tutti i bisogni, e non certo perché è la società dell’indottrinamento forzato! (questa è quasi una diffamazione - trovate nel mio scritto sia pure un accenno all'indottrinamento forzato, per giunta)
    6) Engels di questo periodo sia stata così profondamente marcata di neopositivismo, questo non significa che tutti i suoi scritti siano da buttare via (questa è una vera e propria falsificazione - confrontate con quanto ho invece scritto)
    6b) (poi dice ancora)se non si è d’accordo con un’opera, penso che occorra giustificare nel merito il proprio disaccordo. (finge di non avere letto ciò che ho scritto a proposito per fare apparire le critiche gratuite - leggete ciò che ho scritto e giudicate voi stessi))
    7) Non c’è nessun giustificazionismo storico agli orrori delle varie società divise in classi, come assurdamente suggerisce il compagno Bogdanov ( "assurdamente" è un insulto gratuito da parte del compagno Eduardo il quale, in un altro intervento quì, scrive "necessario sopravvento di classe" - ma "necessario" non è forse giustificatorio?)
    8) Ma, ciò detto, è vero che la rivoluzione proletaria non è possibile in qualunque momento della storia e che si è resa possibile e attuale solo a partire dalla fase di decadenza del capitalismo ( per favore, cercate in ciò che ho scritto dove è affermato che la rivoluzione è sempre possibile - la frase è subdola e vorrebbe indurre il lettore a credere che sia stato io a dire il contrario).
    Ce ne sarebbero molte di più, ivi inclusa la generalizzazione di una citazione di Marx usata a sproposito, ma basta così.
    Ma tanto per la chiarezza:
    La sola vera legittimità di un regime di classe sta nella violenza con la quale si impone alla restante umanità. Dire che i regimi di classe siano serviti al progresso umano significa elevare lo sfruttamento e la violenza a motore del progresso umano, dirlo di soppiatto senza ammetterlo è subdolo. E dire questo significa negare, in sostanza, non soltanto la socialità dell’uomo ma anche il fatto che si deve proprio a questa socialità tutto il progresso, inclusa scienza e conoscenza.
    La prima tesi porta allo stalinismo, la seconda al consiliarismo.
    Ed è precisamente qui che si definisce lo status di un partito ed il suo tipo di rapporto con la classe, perché è da qui, da come si interpreta il processo storico che deriva tutto il resto.
    Guardare all’indietro la storia umana proiettando su essa l’immagine della società complessa e del grande opificio è precisamente il contenuto della storiografia borghese, che cancella e giustifica millenni di delitti definendoli “il prezzo tragico del progresso”.
    Questo concetto non ha nulla a che vedere col materialismo storico di Marx, nel quale le categorie teoretiche borghesi sono sbriciolate e distrutte da una critica inappellabile. Tutto ciò che riprende queste categorie, sia pure capovolte, è soggetto alla medesima critica.
    Il marxismo si appoggiò saldamente sui progressi della conoscenza; Marx, non per caso, dedicò “Il Capitale” a Charles Darwin. Nessuno, beninteso, è obbligato a credere che l’uomo abbia avuto un’evoluzione psicosociale e nessuno è obbligato a credere che esso possa evolversi ulteriormente. Ma a questi concetti è possibile sostituire soltanto categorie religiose, per le quali l’uomo è immutabile nel tempo e l’indeterminatezza nel dire “né buono, né cattivo” (utilizzando categorie religiose, non evolutive) serve semplicemente a sopprimere i risultati dell’antropologia strutturale, come fanno appunto, i più retrivi tra i religiosi.
    Modificato da Bogdanov - 22/1/2010, 17:04

    Eduardo20
    Inviato il: 22/1/2010, 17:40

    Sono veramente sorpreso per la risposta che viene data ad un intervento che voleva cercare di esporre, dal mio punto di vista, come stanno le cose. Questo mio intervento può essere considerato impreciso, insufficiente, sbagliato e, se qualche compagno mi convincerà di questo fornendomi gli opportuni argomenti, non avrò alcuna esitazione a correggere quello che è sbagliato. Nella discussione tra compagni non c’è nessun bastione e tanto meno nessun amor proprio da difendere se non la massima chiarezza reciproca, con la consapevolezza che si sta partecipando ad un dibattito che va ben al di là di un singolo forum perché riguarda l’intera classe operaia. E’ perciò che non capisco, lo ripeto, la reazione del compagno Bogdanov che arriva addirittura a parlare di falsificazioni, deformazioni e diffamazioni, con tutto quello che segue, affermando che non può e non gli interessa neanche dare una breve risposta. Capisco, dal tono della sua risposta, che lui legge le frasi che ha citato dal mio intervento come se dietro ci fosse chi sa quale atteggiamento manovriero. Il che non corrisponde a verità. Quello che ho espresso nel mio intervento non è altro che quello che io ho capito della visione del compagno dall’insieme delle cose che lui ha scritto. Può darsi che ho mal interpretato, e allora? Qual è il problema? La discussione dovrebbe servire proprio a superare eventuali incomprensioni e malintesi, anche nel caso in cui non si arrivi ad una convergenza di vedute. D’altra parte non capisco come questo innalzamento del tono della discussione possa essersi sviluppato con un compagno che io stimo e che conosco da anni e anni. Nonostante la gravità dell’accusa, io sono convinto che il compagno si sia semplicemente lasciato prendere dall’accanimento della discussione e non si sia reso conto dove questo lo spingeva. Perciò lo invito a fare un passo indietro e a riprendere, se gli altri compagni sono d’accordo, questa discussione nell’ambito del gruppo di discussione, con una riunione specifica, dove potremo reciprocamente esporre, assieme agli altri compagni e nella massima serenità, le diverse tesi, metterle a confronto per cercare di arrivare ad una sintesi superiore. Ovviamente i materiali di questa discussione potrebbero opportunamente essere riportati sul forum perché tutti possano prenderne visione. Saluti a tutti, Eduardo

    Edited by stefanot - 18/3/2010, 18:38
     
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